Un altro bel racconto del concorso letterario 2010 di Villa Petriolo “La gaia mensa” ci accompagna in questa domenica di dicembre…
Michele Piccolino ha 37 anni e vive tra Ausonia (FR) e Formia (LT).
Avvocato, insegna Diritto Privato presso la Facoltà di Economia dell’Università di Cassino.
Ha riportato importanti piazzamenti – fra gli altri – ai premi Apuliacon, Galassia, Robot, Pianeta Rosso, Stefano Marello, RiLL, Muratori, Massimo Troisi, Macchia d’Isernia, Loris Biagioni.
Ha organizzato nel 2002 e nel 2003 il premio Douglas Adams per racconti di fantascienza umoristica. Suoi lavori sono stati pubblicati in molte antologie.
Racconto “La povera mensa” di Michele Piccolino
La domenica con nonna Ada iniziava il sabato di buon mattino, al mercato rionale di Piazza del Carmine nel quartiere S. Frediano.
Ci aggiravamo tra le bancarelle multicolori riempiendoci le orecchie delle voci eccitate del mercato e il naso dei profumi stuzzicanti delle vivande esposte.
— La buona cucina inizia al momento della spesa. — mi diceva la nonna come a catechizzarmi.
Si fermava davanti ai banconi, ne scannerizzava con uno sguardo il contenuto, poi si rivolgeva al venditore con il piglio di chi è abituata a comandare.
— Buongiorno Alfredo, dammi dei fagioli. Quelli che sai tu.
Alfredo il legumaio si guardava intorno con fare cospirativo e pescava in un sacco nascosto sotto il bancone. Poi richiudeva in modo furtivo il sacchetto di carta che aveva riempito.
— E come li farà stavolta? — chiedeva sottovoce.
— Semplici: al fiasco. — rispondeva la nonna accogliendo nella sporta mezzo chilo di introvabili fagioli di Sorana.
— Oddiomioddiomio. — sospirava Alfredo con la lingua annegata nell'acquolina.
La tappa successiva era dal pizzicagnolo.
— Buongiorno Giovanni. Mi servono lardo e pecorino.
La nonna era parsimoniosa con le parole per quanto, invece, era generosa in cucina. Se voleva del lardo, poteva essere solo di Colonnata, il pecorino naturalmente di Pienza.
— I suoi ospiti domani mangeranno da granduchi. — diceva Giovanni porgendole quelle leccornie. La nonna si scherniva e faceva un gesto come a dire “falla finita”.
Dal fruttivendolo si soffermava un po' di più. Sceglieva le verdure con scrupolo maniacale. Il cavolo nero lo scrutava in controluce, foglia per foglia, come un cassiere di banca con la filigrana di una banconota.
Poi andavamo da Aristide, il nostro macellaio di fiducia in Via de' Serragli.
— Mi serve della bella polpa di manzo.
Aristide prendeva un pezzo di carne speciale e cominciava a tagliare.
— E come ha intenzione di cucinarla? — chiedeva con finta noncuranza mentre pesava e incartava.
— Ti do un indizio: Chianti Classico.
— Ah, ho capito.
Solo io non capivo mai. Avrei capito dopo, in cucina, quando la nonna mi avrebbe reso partecipe della sua arte.
L'ultima tappa era in cantina, da Silvia, la sommellier cui la nonna si affidava per gli abbinamenti vino/pietanza. Nonna sciorinava il menu nell'orecchio di Silvia che poi in silenzio scorreva con gli occhi le scaffalature in cerca di ispirazione. Dopo un minuto l'oracolo del vino pronunciava il suo vaticinio.
— Golpaja 2005. — e ne prendeva tre bottiglie
— E dammi pure una bottiglia di vin santo e una per cucinare.
Poi tornavamo a casa. Sapevo benissimo che il giorno dopo la nonna mi avrebbe tiranneggiata, seppellita sotto un subisso di “sbuccia questo”, “taglia quello”, “lava quest'altro”. Ma la cucina è fatta di disciplina e del rispetto della scala gerarchica. Nonna Ada era il glorioso comandante in capo, io l'umile fantaccino.
Una volta davanti al portone di casa, io salivo sopra con la spesa; la nonna invece si dirigeva verso Piazza SS. Annunziata.
— Vado a fare gli inviti per domani.
La mattina dopo incominciavamo di buon'ora, in un moltiplicarsi di vasellame e utensili si creava una sinfonia di metallo e ceramica, gli sfrigolii d'olio extravergine si alternavano agli sbuffi caldi e vaporosi del forno.
Io a volte, mentre pelavo una patata, rimanevo affatata ad ammirare il sapiente e vorticoso mulinare delle mani della nonna. La nonna non mi spiegava niente, almeno non a parole.
— Guarda e impara. — mi diceva sempre. La didattica dell'esempio, la chiamava. Io sapevo in verità che si vergognava a sentirsi in cattedra. La sua modestia di artigiana dei fornelli me la faceva amare ancora di più.
A metà mattina io scendevo per prendere il pane fresco. Poi, mentre la nonna monitorava le pentole e il forno, mi dedicavo alla preparazione della tavola nella sala da pranzo. Prendevo la tovaglia di lino ricamata, il servizio buono di porcellana e i bicchieri di cristallo. Poi le posate, messe in bell'ordine intorno ai tovaglioli. Apparecchiavo per dodici: per me, la nonna e i nostri dieci commensali. A mezzogiorno in punto scaraffavo le bottiglie e tagliavo il pane.
Mezz'ora dopo arrivavano i nostri ospiti. Alcuni erano già stati da noi ma anche i nuovi conoscevano la nonna e la sua casa. Alla Caritas la conoscevano tutti e per tutti i frequentatori della mensa era la cuoca migliore di Firenze.
— Ben arrivati. — li accoglieva sorridente la nonna.
Gli ospiti, vedendo la bella tavola apparecchiata per loro, avevano un attimo di smarrimento. Qualcuno biascicava stentati ringraziamenti, un altro porgeva un mazzo di fiori provenienti da chissà quale aiuola. Tutti quanti indossavano poco più che stracci ma avevano il viso e le mani puliti, come a dimostrare che non avevano abiti migliori ma che rispettavano la nonna e la casa in cui si trovavano.
Appena seduti a tavola, gli ospiti, poco avvezzi a misurarsi con tutti quei bicchieri e posate, lanciavano occhiate di supplica al proprio vicino di posto in cerca di lumi circa la condotta da tenere. La tensione si scioglieva quando portavamo in tavola l'antipasto.
— Lardo con composta di marroni; pecorino e marmellata di cardi. — proclamava la nonna servendo i piatti.
La caraffa del vino cominciava a girare. La cautela dei primi morsi si perdeva presto in mugolii estatici e in reiterati complimenti. Gli sguardi si illanguidivano e i discorsi si facevano meno ritrosi.
Il resto del pranzo proseguiva con i giusti tempi, in un crescendo che entusiasmava i nostri ospiti. Due crostini di fegatini di pollo, tanto per gradire. Poi tagliatelle di Novegigola; zuppa alla frantoiana; stracotto alla fiorentina; fagioli al fiasco.
A pancia piena e con più di un bicchiere di rosso in corpo, i nostri ospiti si lasciavano andare, superando la vergogna e la diffidenza naturali di chi ha visto il peggio della vita, la propria vita.
Attorno al tavolo da pranzo, la domenica, per anni, abbiamo sentito le storie più strane, storie dolorose e grottesche, storie di uomini e di donne che a un certo punto non avevano avuto altra scelta che vivere in strada, di elemosina e stenti, freddo e disprezzo della gente.
Come quell'impiegato di banca che, abbandonato da moglie e figli, aveva annegato il dolore prima nell'alcol e poi nel gioco, fino a perdere tutto, compresa la dignità. Oppure come quella prostituta che, una volta smarrita la sua bellezza, si era fatta portare via tutto dal suo pappa.
Ma c'era anche chi aveva scelto di vivere in quel modo. Vassilj, un ospite frequente della nostra tavola, amava ripetere che “è meglio essere un barbone a Firenze che un contadino in Ucraina”.
Nonna Ada ascoltava tutti, mentre andava e veniva con i piatti. Alla fine, tiravamo tardi mangiando buccellato e biscotti di Prato, dando fondo alla bottiglia di vin santo.
Poi, ad un certo punto, la nonna guardava l'orologio, proclamava la necessità di rigovernare e si alzava. Rifiutava le offerte di aiuto da parte degli ospiti che, tra una salmodia di ringraziamenti, si accomiatavano lanciando occhiate malinconiche alla tavola dalla quale si erano appena alzati.
Mentre lavavamo pentole e stoviglie, la nonna mi ribadiva la sua filosofia di cucina, che poi era quella della sua intera vita.
— Bisogna amare quello che si cucina, perché è la passione che fa la ricetta, non gli ingredienti. E il frutto di tanto amore bisogna condividerlo con chi sa apprezzarlo, con il palato e con il cuore. Chi ha fretta, chi sta a dieta, chi è distratto dagli affari, è meglio che non si segga alla mia tavola.
Nel mio ristorante si mangia rigorosamente cucina toscana, con ingredienti toscani.. La cucina di nonna Ada.
”Da nonna Ada”, forse avrei dovuto chiamarlo così questo locale. Ma la nonna, modesta com'era, non avrebbe apprezzato. La sua tavola, ripeteva, non era un proscenio sul quale imbastire lo spettacolo stucchevole di certi cuochi giullari o filosofi che tanto vanno di moda oggi. No, la sua tavola era il luogo dove si mangia. Una mensa, insomma.
“La povera mensa”, trattoria toscana. Siamo chiusi il lunedì.