La precarietà non basta. Un breve sguardo alle criticità italiane.

Creato il 30 gennaio 2012 da Idispacci @IDispacci

“Il lavoro non viene più eseguito con la coscienza orgogliosa di essere utile, ma con il sentimento umiliante e angosciante di possedere un privilegio concesso da un favore passeggero della sorte, un privilegio dal quale si escludono parecchi esseri umani per il fatto stesso di goderne, in breve un posto.”

In Italia, il mondo del lavoro è perennemente oggetto di mistificazioni, banalizzazioni e strumentalizzazioni: dal bancone del bar alle sedi di partiti e sindacati, vengono quotidianamente elargite parole come precariato, posto fisso, licenziamenti facili, anticipazione dell’ingresso lavorativo, eludendo sempre la radice del problema. Nelle innumerevoli riforme perennemente enfatizzare nel talk-show non si annuncia mai la fatidica “mobilità”.

Se analizziamo l’evoluzione del “sistema lavoro” dal dopoguerra ad oggi, è stupefacente l’alta dinamicità degli anni ’60, seguita da un lento e progressivo ingessamento che ha il culmine alla fine del secolo. Operai di ieri hanno generato “borghesi” di oggi: i figli di coloro che anni fa lavoravano nelle fabbriche hanno egoisticamente beneficiato dei frutti del boom economico, diventando l’attuale fascia conservatrice che ha interrotto così lo scambio intergenerazionale.

Altra rilevante anomalia è l’affannata legislazione che, nel corso dei decenni, è degenerata in un universo di contratti atipici da espediente per le imprese piuttosto che per i lavoratori (eclatante il caso della la legge Biagi nata per tutelare il lavoratore). Dunque la continua temporaneità ed incertezza contrattuale ha sedimentato il bisogno di un posto fisso. Abbiamo così uno svuotamento della funzione sociale del lavoro e, di conseguenza, ciò ha prodotto una mancanza di un adeguato commitment[1] e di un piano di carriera certo.

E quando il welfare è assente, subentra la famiglia: ammortizzatore italiano per eccellenza. Genitori costretti a lavorare oltre età pensionabile o che affiancano al lavoro principale “lavoretti” paralleli – principalmente in nero – pur di materne la prole. Emerge così l’ennesimo problema:  i prezzi del mercato immobiliare non sono convenienti e ciò genera bamboccioni.

È questione di tempo dicono, prima o poi ce la fai e una volta entrato sei apposto per tutta la vita. Ma spesso il lavoro troppo protetto è fonte di inefficienza: e gli apparati pubblici sono un esempio magistrale. È proprio questa discriminazione tra precari e lavoratori protetti che impedisce gli uni di entrare e gli altri di originare produttività.

Per uscire da questo limbo bisognerebbe rendere più flessibili le fasce protette ovvero intensificando quella giusta mobilità che possa avviare così un continuo ricambio generazionale; cambiare le attuali politiche di efficiency wages[2] ovvero incrementando i salari dei precari rispetto a quelli con il “posto fisso”, incentivando una più rapida assunzione stabile ed imponendo un limite massimo di contrattiprecari” per alcuni settori; potenziare gli ascensori sociali ovvero aggiornando i programmi scolastici per garantire una valida certificazione spendibile nel mondo del lavoro; avviare l’emancipazione giovanile ovvero applicando sgravi fiscali ai contratti di locazione intestati ai giovani per ridurre il tasso di coabitazione familiare.

Molte altre ancora possono e devono essere le proposte. Ma prima di iniziare a riformare il sistema bisogna riformare il linguaggio: far capire che flessibilità non è precarietà, che “posto fisso” non è “produttività”, che uscire di casa non è insicurezza.

BKS

Note:

  1. Il commitment organizzativo è l’identificazione del lavoratore con l’azienda (e i suoi obiettivi) e l’attaccamento affettivo che si genera il dipendente verso di essa.

  2. Le politiche di efficienza salariale colpiscono appunto il salario per massimizzare la produttività e l’efficienza di un soggetto economico.


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