La presenza romana nel territorio di Sant'Andrea Frius e la tavola di Esterzili. (Seconda parte)

Creato il 05 luglio 2013 da Pierluigimontalbano
La presenza romana nel territorio di Sant'Andrea Frius e la tavola di Esterzili.
Seconda parte.
di Aldo Casu


Da quanto esposto nella prima parte di questo articolo, pubblicata il 7.6.2013, emergono diversi dati storici inediti sul territorio di Sant’Andrea Frius:
• il suo “atavico legame” con la Barbagia in quanto luogo in cui i Barbaricini, probabilmente da sempre, portavano le loro greggi a svernare evidentemente col benestare degli autoctoni che vi risiedevano stabilmente;
• indicazioni toponomastiche che testimoniano che i pastori delle montagne compivano periodicamente delle “calate” nella sua parte occidentale dove genti non sarde praticavano l’agricoltura in insediamenti rurali detti “topia”;
• una fortissima presenza militare romana, specie in età imperiale, caratterizzata dallo stazionamento di una “cohorte”, nella sua parte occidentale, e da una serie di “mansiones”, nella sua parte orientale, che avevano il compito di controllare i movimenti dei nativi, contrastarne, per quanto possibile, le incursioni e punirle duramente come testimoniato dal significato etimologico di alcuni toponimi.
Questi fatti ricordano molto quelli testimoniati dalla tavola di bronzo ritrovata in agro di Esterzili in località Corti’ e Luccetta, nel 1866, contenente ”… copia del decreto atto a dare, nel 69 d.C., una definitiva soluzione …”(1) alla annosa questione dei confini e dei disaccordi tra Galillensi e Patulcensi Campani. “… Nello straordinario documento (datato 18 marzo 69 d.C.) è richiamata la copia autentica di una sentenza estratta da un codice nel quale erano contenuti i decreti emanati dal proconsole provinciale L. Elvio Agrippa nel 68-69 d.C., che richiamavano i provvedimenti di tre predecessori dello stesso emanati alla fine del II secolo a.C., nel 65-67 d.C. e nel 67-68 d.C. …”.(2) Durante il secolo e mezzo trascorso dal suo ritrovamento ad oggi, molti studiosi si sono interessati ad essa e l’argomento più discusso è stato quello della localizzazione dei due popoli in esso citati, i Galillenses e i Patulcenses Campani “… arroccati i primi sulle alture del Gerrei e residenti i secondi nelle pianure fertili della Trexenta a nord di Cagliari, presso il moderno centro di Dolianova …”.(3)(4) Da questa frase del Bonetto sembrerebbe che il moderno centro di Dolianova si trovi nella regione storica della Trexenta, non è così, ma nel suo tentativo di sintetizzare le diverse opinioni della Bonello Lai e del Pittau sulla sede dei Patulcenses, lo studioso si è avvicinato moltissimo alla verità.

La Bonello Lai sostiene, infatti, che questi coloni di origine italica fossero stanziati nella regione del Parteolla (5) mentre M. Pittau sostiene che essi fossero insediati nell’odierna Trexenta (6) ma nessuno dei due era a conoscenza dei fatti storici inediti riguardanti il territorio di Sant’Andrea Frius la cui parte orientale, dal punto di vista geologico, fa parte del Gerrei (7) mentre quella occidentale fa parte geologicamente della Trexenta.(8)
Questo territorio comunale, inoltre, confina a sud col territorio di Donori, che è compreso nell’odierno Parteolla, e a sud est col territorio della stessa Dolianova per cui, proprio per la sua posizione, è coerente con entrambe le ipotesi che, in esso, trovano il loro punto di incontro.
Prima d’ora solo il Taramelli(9) aveva blandamente accennato all’esistenza di un legame tra questo territorio e i fatti narrati dalla Tavola di Esterzili; legame che (alla luce delle più recenti scoperte fatte col Censimento Archeologico Comunale(10) che ha confermato, tra l’altro, l’esistenza nell’agro di questo comune delle tracce di una “linea di mansioni militari” aventi lo scopo di contenere le “calate” dei montanari, postazioni la cui esistenza è stata ipotizzata dallo stesso Taramelli(11)) appare ancor più verosimile se non addirittura certo.
È vero che “… Il paesaggio documentario sardo di controversiae finium per pascoli e campi
coltivati (…) quale esempio di meccanismo di gestione e assetto socio-economico di un territorio, assume un significato notevole nell’orizzonte mediterraneo in quanto non risulta isolato nella tipologia e nella sostanza; esso si trova replicato pressoché identico nella prossima isola di Corsica, dove, presso un villaggio della zona settentrionale dell’isola, venne recuperata nel 1669 una tabula bronzea del tutto simile a quella di Esterzili per cronologia e per contenuti. Essa infatti contiene un rescriptum di Vespasiano datato al 12 ottobre del 77 d.C. avente come oggetto una controversia per i confini tra le popolazioni dei Vanacini e dei Mariani, i primi appartenenti ad una comunità indigena legata ad un’economia allevatoria e i secondi ad una comunità di immigrati italici della colonia mariana dedita prevalentemente all’agricoltura …”.(12)
Ma ci sono altri due particolari che sostengono la quasi certezza che i fatti narrati nella tavola di Esterzili, siano avvenuti in questo territorio:
1) il primo è il fatto che per esso passa la “via naturale” che dal Campidano conduce alle alture del Gerrei e dell’alto Flumendosa e viceversa;
2) il secondo è il fatto che Esterzili, il luogo del ritrovamento della tavola di bronzo, è un paese ubicato lungo il percorso che i Barbaricini ogni anno compivano per portare le loro greggi a svernare in questo territorio e per riportarle nei loro territori all’inizio dell’estate.
Già molto prima dell’arrivo dei Romani nell’isola, lungo la via naturale suddetta passava un’antica strada che da Cagliari conduceva a Mandas – Isili, che in questo paese si diramava per S. Nicolò Gerrei – Ballao e che in epoca punica era una delle più importanti vie di penetrazione verso l’interno dell’isola.(13)
Là dove questa strada si diramava non era un luogo qualunque; era il sito sul quale era imperniato il “sistema nuragico di Frea”(14) composto da nuraghi arcaici costruiti quasi tutti a partire dal XVI secolo a.C. (vedi tavola 1);
era l’area da sempre “sacra” per gli indigeni per la sua ricchezza di acque sorgive il cui culto durò per un lunghissimo arco di tempo e alle quali gli stessi Romani attribuivano proprietà curative(15)
(vedi foto 2);

era uno dei luoghi di culto punici della Sardegna meridionale(16) ed era, infine, il sito in cui, da un primo posto militare, si sviluppò un notevole centro romano che si conservo per tutta l’epoca romana(17)(vedi tavola 2).
Da sempre, quindi, questo sito e tutta l’area occidentale dell’attuale territorio di questo comune, quella controllata dal sistema nuragico, per intenderci, aveva una grandissima importanza religiosa per i Sardi, sia per quelli che vivevano all’interno dell’enclave, sia per quelli che risiedevano nella zona montagnosa a est dell’attuale abitato e, sicuramente, anche per quei pastori che dal centro dell’isola da sempre portavano le loro enormi greggi a svernare in questo territorio.
Purtroppo, poiché in quest’area non si sono mai fatti degli scavi, non esistono dati stratigrafici che consentano di inquadrare lo stato del sistema nuragico all’inizio dell’epoca romana.
Solo dalla toponomastica si sa che alcuni tra gli insediamenti nuragici più importanti erano ancora abitati da Sardi all’arrivo dei Romani in quest’area e che contro alcuni di essi i Romani dovettero combattere.
Ma il fatto che i primissimi coloni alloctoni, giunti al seguito del Proconsole Metello nel 115 a.C. (come si è visto nella prima parte) si siano insediati nelle immediate vicinanze dei nuraghi, fa sorgere il dubbio che diversi di questi fossero già allora o disabitati o comunque abitati da gente non in grado di opporsi all’occupazione romana di tutta l’area che avvenne, con molta probabilità,
gradualmente e senza grandi difficoltà, nonostante lo stesso proconsole, nel 111 a.C., avesse decretato la rinuncia di Roma a occupare le terre dei Nuragici(18) e questa, anche se il sistema che la controllava e la proteggeva, dopo circa 15 secoli, non fosse più efficientemente funzionante, era e restava un’enclave nuragica.
Pertanto non è inverosimile pensare che le rivendicazioni portate avanti per decenni dai Galillenses riguardassero proprio la parte occidentale dell’attuale territorio comunale di Sant’Andrea Frius, quella, cioè, dove sorge l’odierno centro abitato e dove sono rimaste numerose tracce di “topia” dove genti non sarde lavoravano la terra.
Altrettanto verosimile è che uno di quegli “… argomenti non riferiti e che non conosciamo …” che i Galillenses adducevano nella continua riproposizione della vertenza(19) fosse proprio quell’atavica importanza religiosa per loro di queste terre.
La vertenza fu riproposta davanti ai diversi governatori della Sardegna che si susseguirono tra il 65 e il 69 d.C., i Galillenses da “convenuto” divennero “attore”(20) e non essendo riusciti a provare i loro diritti con una copia autentica del decreto del 111 a.C. del proconsole Metello, da “usurpati” divennero “usurpatori” e furono condannati a sgomberare le terre dei Patulcenses per non incorrere in sanzioni criminali.
“… Nel 69 d.C. il processo di romanizzazione dei Galillenses parrebbe estremamente avanzato:
Y. Le Bohec ha notato che questo populus aveva rinunziato all'uso delle armi, sostituendovi «toutes les astuces du droit romain pour prolonger leur usurpation»...”.(21)
“...in Sardinia il processo di romanizzazione, nell'arco di tre secoli, riuscì a coinvolgere anche alcuni populi tradizionalmente legati all'uso di ampi territori proprio delle comunità pastorali, guidandoli alla sedentarizzazione (...) Ma questa chiave di lettura non può essere valida in assoluto: gli accenni che possediamo sul bellum che oppose i Barbaricini localizzati ultra Thyrsum e i Bizantini nel IV secolo d.C., dimostrano in maniera eloquente che in vari Cantoni della Barbaria sarda l'atavico spirito di «resistenza» ai domini esterni non si spense mai …”.(22)
Non solo non si spense mai quell’atavico “spirito di resistenza” dei Sardi che erano stanziati nella parte più interna dell’sola, essi non abbandonarono mai neppure la loro consuetudine a scendere a svernare, con il loro bestiame, in questo territorio: anzi, tale usanza, dettata dall’asprezza del clima invernale delle loro montagne, è stata praticata fino ai primi decenni del XX secolo.
Ogni anno all’inizio dell’autunno i pastori barbaricini riunivano le loro greggi fino a formarne anche di migliaia di capi e con essi iniziavano il lungo viaggio, che durava diverse settimane e che non era privo di imprevisti per la difficile gestione del gran numero di animali e per i problemi che spesso capitava di avere con gli allevatori e i contadini dei territori che si attraversavano.
Negli ultimi tempi il bestiame, invece che a piedi, veniva spostato con dei camion, ma sono molti
quelli che ricordano ancora quando alla fine dell’estate, negli anni ’60 del secolo scorso, questo paese veniva attraversato da mandrie e greggi grandissimi che venivano condotti a passare l’inverno nelle terre della Trexenta.
Naturalmente col passare degli anni e dei secoli, questa transumanza divenne sempre più pacifica ma circa duemila anni fa le cose andavano in modo molto diverso.

I pastori delle montagne erano costretti a affrontare un lungo e difficile viaggio a piedi non solo per poter garantire al loro bestiame un buon pascolo nei mesi più freddi dell’anno, ma anche per poter procurarsi quei prodotti di cui avevano bisogno per il loro stesso sostentamento, cereali, legumi, attrezzi, metalli ecc., che non avevano nelle loro montagne.
Questa necessità, una volta risolta definitivamente la questione delle terre di cui testimonia la tavola di Esterzili, rimase ancora per molto tempo la motivazione principale di quelle “calate” di cui è rimasta traccia nella toponomastica locale.
Queste “razzie”, come tramandato nella tradizione orale, avvenivano regolarmente ogni anno in primavera e erano più violente soprattutto negli anni più difficili o per le carestie o per le morie di bestiame o per altri eventi nefasti che, per secoli, si sono verificati nell’isola.
Il viaggio di ritorno alle loro montagne era più difficile per i Barbaricini perché dovevano portare con sé anche tutto quello che erano riusciti a razziare e perché spesso erano inseguiti dai soldati romani o, più tardi, dagli stessi contadini che avevano depredato.
Secondo la testimonianza di un anziano ormai deceduto (vedi prima parte, nota 13) i Barbaricini che svernavano in questo territorio, per ritornare alle loro terre passavano per San Nicolò Gerrei, proseguivano per Ballao, dove guadavano il Flumendosa, attraversavano Escalaplano e, lasciandosi alla destra il M. sa Colla (724 m slm), il M. sa Pranàrgia (900 m slm) e il M. Santa Vittoria (1.212 m slm), e, passando proprio per Esterzili, raggiungevano la Barbagia di Seulo e quella di Belvì fino a arrivare ad Atzara citata esplicitamente in questo territorio nel toponimo “Sèdd’’e s’atzarésu” (= sede dell’atzarese).
Esterzili, quindi, si trova lungo il percorso che i Barbaricini seguivano per tornare alle loro terre ogni anno all’inizio dell’estate, ed è molto probabile che siano stati proprio loro a trafugare la tavola di bronzo e non i Galillenses.
Come si è osservato, questi ultimi erano molto romanizzati già nel 69 d.C., nell’anno, cioè, in cui la tavola venne realizzata e, in quanto tali, non avevano ormai più alcun interesse a impossessarsi del manufatto in bronzo, che probabilmente era esposto in uno degli edifici pubblici/privati di quel notevole centro romano sulle cui rovine sorge questo paese, e tanto meno avevano motivo di portarlo così lontano dalle loro terre.
I Barbaricini, invece, di cui si è detto che non avevano mai perso l’atavico spirito di resistenza, avevano almeno due buoni motivi per portarsi via la tavola: il primo era quello di poterlo mostrare come trofeo della loro “vittoria” sui Romani e il secondo era la possibilità di utilizzarne il materiale per la produzione di altri utensili, o armi, a loro necessari.
Nella stessa località in cui venne ritrovata la tavola esistono i resti di costruzioni romane (vedi foto 3 e 4)(23), probabilmente un altro avamposto militare, e si può immaginare che, arrivati nelle loro vicinanze, per qualche motivo abbiano deciso di disfarsi della prova del saccheggio che avevano compiuto, magari con l’intenzione di tornare a riprenderla in un secondo tempo, durante una successiva transumanza.
In sintesi, quindi, si può dire che questo territorio si propone come il più probabile teatro dove si sono svolti i fatti testimoniati dalla tavola di bronzo ritrovata casualmente nelle vicinanze del piccolo paese di Esterzili e che quel notevole centro romano, sui cui resti sorge l’attuale abitato di Sant’Andrea Frius, è la più probabile sede originale della stessa tavola.

Rimane ancora aperta la domanda quando la tavola fu trafugata da questa sua sede.
Sebbene manchino dati certi a causa del fatto che, mentre negli altri paesi del circondario si sono e/o si stanno svolgendo campagne di scavi in questo non si è neppure ancora riusciti a ottenere che la responsabile di zona della Soprintendenza Archeologica di Cagliari (nonostante le ripetute segnalazioni e richieste fatte negli ultimi vent’anni) facesse anche un solo sopralluogo in questo territorio, si possono fare delle ipotesi sulla base delle seppur pochissime notizie che si hanno.
Secondo il Taramelli (vedi nota 9) il notevole centro romano che si sviluppò attorno ad un primo
posto militare, centro che altro non era che “la ricca e vasta città di Frea” (o “in Frea”) di cui ci è giunta notizia attraverso la leggenda, si conservò per tutta l’epoca romana.
Da questo si può dedurre che, dopo aver conosciuto un lungo periodo di prosperità dovuta alla sua importanza sia religiosa che commerciale e militare, la città sia decaduta grossomodo nello stesso periodo in cui cadde l’Impero Romano d’Occidente con la conseguente diminuzione della forza militare romana.
Più precisamente, è molto probabile che la “ricca città”, importante centro militare, sia stata distrutta (perché prima non sarebbe stato possibile per la forte presenza militare) durante quel “bellum”, di cui si è detto che “… oppose i Barbaricini ai Bizantini nel IV sec. d.C. …”(vedi nota 22), in cui il mai spento “spirito di resistenza” dei Sardi delle montagne, guidati da Ospitone, si trasformò in una vera e propria rivolta armata che non poteva non colpire pesantemente quella che per secoli era stata simbolo del dominio di Roma e dei suoi soprusi nei confronti dei Sardi.
Ma questa è un’altra storia, anch’essa ancora tutta da scrivere.
Qui si può concludere ricordando che anche quelle antiche “calate” o “incursioni”, col tempo, subirono dei cambiamenti fino a trasformarsi in quelle “grassazioni” che interi paesi hanno compiuto ai danni di altri paesi fino alla fine del XIX secolo. Gli uomini di un paese si riunivano la sera con un gran numero di carri, raggiungevano il paese prescelto, lo circondavano e, buttando un po’ di polvere da sparo nei comignoli delle case dove ardevano i fuochi, avvisavano gli abitanti di rimanere ben chiusi in casa, e poi entravano nelle abitazioni dei più ricchi che sottoponevano a torture, spesso crudelissime, per farsi svelare dove tenessero i soldi e le cose di valore. Una volta ottenuto quello che cercavano, caricavano sui carri tutto quello che trovavano e se ne ritornavano tranquillamente al proprio villaggio. L’ultimo caso di cui si ha notizia in questo paese, risale proprio agli ultimi decenni del 1800 e portò, attraverso rocambolesche vicende, a quella che è ancora ricordata come “la storia del bandito G. Sedda” che fu ucciso dalle forze dell’ordine, dopo anni di latitanza, numerosi omicidi e vendette mirati, il 21 maggio del 1895.

NOTE
1) A.A.V.V.: “La tavola di Esterzili” – Convegno di studi, Esterzili 13 giu. 1992, Gallizzi, Sassari 1993,
M. Bonello Lai: “Sulla localizzazione delle sedi dei Galillenses e dei Patulcenses Campani”, pag. 59;
2) A.A.V.V.: “La lana nella cisalpina romana”, Atti del convegno (Padova – Verona 18-20 Maggio 2011),
Jacopo Bonetto, “Agricoltura e allevamento ovino: orizzonti mediterranei e territori cisalpini”, cit. pag. 115;
3) Ibidem;
4) Per quanto riguarda le possibili localizzazioni dei Galillensi e dei Patulcensi Campani si vedano i contributi della
Bonello Lai nell’opera citata nella nota 1,”Sulla localizzazione delle sedi dei Galillenses e dei Patulcenses
Campani” a pag. 49 e “Il territorio dei populi e delle civitates indigene in Sardegna” a pag. 157,
e le considerazioni in parte diverse di M. Pittau nella stessa opera in “La localizzazione dei Galillenses e dei Patulcenses” a pag. 123 e in “Galillenses e Patulcenses”, http://www.pittau.it/Sardo/esterzili.html;
5) M. Bonello Lai, opera citata, pag. 57;
6) M. Pittau, opere citate;
7) Come in tutto il Gerrei le rocce che affiorano nella parte orientale del territorio di Sant’Andrea Frius risalgono al Paleozoico e sono ricche di minerali.
8) Quelle che affiorano, invece, nella parte occidentale risalgono al Miocene, come quasi tutta la Trexenta, e abbondano di
fossili.
9) Taramelli: “Scavi e scoperte nell’antichità 1920 – 1939” alla voce “Sant’Andrea Frius – tomba di età romana scoperta nell’abitato”;
10) R. Relli (a cura di): “Sant’Andrea Frius – dall’Eneolitico alla Rifondazione”, N.G.O. Ortacesus 2006;
11) Taramelli, opera citata;
12) Jacopo Bonetto, opera citata, pag. 116;
13) Barreca: “La Sardegna fenicia e punica”, Chiarella Editore, Sassari 1979, pag. 85;
14) Aldo Casu, articolo “Il sistema nuragico di Frea, l’antica e vasta area sacra”, pubblicato il 16 novembre 2012;
15) D. Salvi, “La continuità del culto. La stipe votiva di Sant’Andrea Frius”, in “AFRICA ROMANA, atti del convegno di studio”,
Sassari 15 – 17 dicembre 1989, Edizioni Gallizzi;
16) Barreca, “Insediamenti fenicio – punici”, carta 37 in “Atlante Storico Sardo”;
17) Taramelli, opera citata;
18) A.A.V.V.: “La tavola di Esterzili”, opera citata, Cadoni: “La tabula bronzea di Esterzili”, pag. 83;
19) Ibidem: S. Schipani, “La repressione della vis nella sentenza di L. Helvius Agrippa”, pag. 135;
20) Ibidem: S. Schipani, opera citata, pag. 137;
21) A.A.V.V.: “La tavola di Esterzili”, opera citata, Raimondo Zucca: “La Tavola di Esterzili e la controversia finium
22) tra Vanacini e Mariani in Corsica”, cit. pag.205;
23) Ibidem;
24) Fonte: https://www.facebook.com/pages/AT-Pro-loco-Esterzili/.


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