Oggi missili, ieri massacri: come siamo finiti nello scatolone di sabbia.
C'è una immagine che mi viene in mente ogni volta che si parla di Iraq, di Afghanistan, di Medio Oriente, di Nordafrica: in particolare quando il discorso verte sull'apparente impossibilità di condurre una guerra al di là delle armi, sulla totale incapacità di stabilire un rapporto con le popolazioni. Di preparare la pace (futura) conducendo la guerra (presente): di vincere, in definitiva.
È una cartolina che raffigura un uomo di 66 anni. La foto ufficiale dell'epoca lo ritrae con un nasone e uno sguardo malinconico sotto il cappello troppo grande che lo fanno assomigliare vagamente a Snoopy. Fa quasi tenerezza, soprattutto se si sa che è il generale Carlo Caneva, l'uomo che dovette condurre per quasi un anno una guerra impossibile, sapendola tale.
Accanto all'immagine una scena: Caneva che esce a piedi dal castello che era stato residenza dei governatori turchi, da solo, senza scorta, l'uniforme grigio-verde di panno pesante col colletto rigido, senza alamari o galloni dorati; esce da solo e fa il giro d'ispezione, di comando in comando, di reparto in reparto, come si fosse alle caserme di via Giulio Cesare a Roma. Sotto un sole della madonna, però. Perché è a Tripoli, è il 1911, e Carlo Caneva è il comandante e governatore generale delle forze italiane in Libia.
E anche se sa come dovrebbe farsi una guerra, cioè non rendendo impossibile una pace, è costretto a barcamenarsi tra una popolazione che non comprende, un governo che vuole tutto e subito ed un nemico sfuggente e per nulla simile a lui. Scrive che "noi queste popolazioni dovremo pure un giorno governare colle arti della pace produttiva e della prosperità comune".
Poi vedo un'altra foto. Non è quella ufficiale, e Caneva non sembra affatto Snoopy. Ha il nasone, sì, ma incastonato in un viso tagliato con l'accetta e cesellato col punteruolo, tutto ombre. Ha lo sguardo beffardo e intelligente, un mezzo sorrisetto all'angolo della bocca. Definisce "suprema necessità" la deportazione di migliaia di abitanti di Tripoli, "talun caso isolato di eccesso" il massacro indiscriminato di altre centinaia di essi; appartiene ad un esercito che scrive nei propri manuali "non conviene scendere a troppa dimestichezza con gli indigeni, [...] punendo severamente qualunque tentativo, anche minimo, di sottrarsi all'autorità dell'europeo."
La storia non ha mai una sola faccia.
La (ormai) prima guerra di Libia non ha avuto appassionati "biografi" di recente. Nessuna opera storiografica dedicatale negli ultimi anni ha goduto di grande attenzione nel dibattito nazionale. C'è stata la Quarta sponda di Sergio Romano, che però risale al 1977 ed è tutto sommato un libro puramente divulgativo. Ci sono stati i lavori di Angelo Del Boca tra fine anni sessanta e anni novanta; c'è stato un piccolo saggio, interessante ma parziale, di Lino Del Fra nel 1995; e c'è stato l'Oltremare di Nicola Labanca nel 2007. Ma per quanto riguarda Del Boca e Labanca i capitoli più forieri di discussioni e riflessioni, nella comunità degli storici e nel paese, sono stati quelli riguardanti le guerre africane di fine '800 (quelle entrate nella memoria collettiva dietro il nome, addirittura diventato proprio di persona, della battaglia di Adua) e soprattutto l'invasione fascista dell'Etiopia nel 1935-36; mentre il saggio di Del Fra ha avuto assai scarsa diffusione. Anche affiancando a questi studi "laici" quelli prodotti dagli storici "in uniforme" il discorso non si arricchisce in misura significativa, fatto salvo il volume dedicato alle guerre d'Africa in Politica e strategia in cento anni di guerre italiane del generale Mario Montanari.
La guerra del 1911 (conclusasi ufficialmente a metà del 1912, ma di fatto continuata fino al 1932) ha molto da raccontare. Al suo interno si muovono, a volte scalciando violentemente, molte delle problematiche ricorrenti nella storia dell'Italia unita: l'atteggiamento irresponsabile delle élites politiche di fronte all'evento bellico, e la cronica incomprensione tra queste e le élites militari; il rapporto tra governanti e governati, esasperato nel 1911 dalla linea della razza ma presente in tutta la storia dell'Italia unita; le velleità da grande potenza nazionale di uno stato che nazionale può darsi, ma grande potenza non lo è mai stato. Senza tacere del mai troppo deprecato assunto, duro a morire, che vuole l'Italia liberale stato coloniale "buono", e l'Italia fascista "cattivo"; posizione sostenuta da chi si ostina ad ignorare come cattivo e buono siano categorie che andrebbero lasciate perdere al conseguimento della maggiore età in ogni contesto, e specialmente quando si parla di storia. E che in ogni caso stato liberale, stato fascista e stato repubblicano sono sempre lo stesso paese, l'Italia.
È una questione, lo si diceva già prima, di facce.
Con questo articolo mi ripropongo di riflettere con voi su questi aspetti, sperando di non tradire la complessità dell'argomento. Nello specifico, seguiremo la preparazione e il primo mese della guerra, quell'ottobre del 1911 che vide in rapida successione lo sbarco a Tripoli degli italiani e l'insurrezione della popolazione araba. Vi avverto: lascerò probabilmente inevase parecchie domande, anche perché spero che possibili risposte, chiacchiere e spunti vengano da voi.
Buona lettura.
1. Italia 1911: l'Uomo di Dronero e la "fatalità storica".
Anzitutto chiediamoci: perché l'Italia va in Libia nel 1911?
Alzando lo sguardo al di sopra degli angusti confini della Penisola, in quell'anno vediamo un'Europa che ha concluso da almeno un decennio il periodo dello scramble for Africa, ovvero della corsa sfrenata all'acquisizione di nuovi territori. Dopo la crisi di Fachoda, che nel 1898 aveva rischiato di trasformare una frizione periferica tra Regno Unito e Francia in una guerra europea, praticamente tutti gli imperi coloniali sono entrati in una fase di consolidamento rinunciando, almeno esplicitamente, ad ulteriori espansioni. Persino la "giovane" Germania (che come l'Italia ha raggiunto l'unità nazionale quando gli altri stati europei avevano già imperi coloniali consolidati, e si è quindi gettata nello scramble con netto ritardo) non ha acquisito nuovi territori africani dopo il 1890.
La corsa a nuove colonie (perlomeno da parte europea) è quindi congelata. La Libia, poi, non è una "terra di nessuno", è una provincia dell'Impero Ottomano (anzi due: i vilayet di Tripoli e Bengasi). Il "grande malato d'Europa" sta mettendo a repentaglio da qualche anno la pace del continente con la sua incapacità di mantenere stabile la situazione nei Balcani, dove una miriade di staterelli suoi ex vassalli (uno su tutti, la Serbia) non vedono l'ora di massacrarlo. Il crollo dell'Impero Ottomano aprirebbe la via del Mediterraneo alla Russia, la quale non a caso spinge sul pedale del panslavismo ponendosi a "grande madre" appunto di Serbia, Bulgaria etc.
Insomma il "grande malato" non va toccato, pena conseguenze imprevedibili. Su questo, tutti i governi europei concordano.
Invece proprio nel 1911 e proprio in Libia sbarcano gli italiani. Cosa spinge Giovanni Giolitti (il presidente del consiglio dall'immagine tanto poco "eroica" da guadagnarsi gli scialbi soprannomi di "Uomo di Dronero" e "Palamidone") a dichiarare una guerra?
Intendiamoci: la Libia è comunque da trent'anni al centro del mirino della diplomazia italiana, in quanto unico lembo di terra nordafricana non sottoposto ad una grande potenza europea. Nel desiderio di aggiudicarsi i due vilayet si confondono pulsioni coloniali e considerazioni difensive: la Triplice alleanza con Germania e Austria-Ungheria "garantisce" l'Italia a nord, sulla terraferma europea, ma non a sud, nel Mediterraneo; da qui il desiderio di includere la quarta sponda nel sistema difensivo del paese. Come che sia, le già citate ragioni sconsigliano un'azione affrettata, anche perché è ragionevole sperare di poter ottenere ciò che già Regno Unito (in Egitto) e Francia (in Tunisia) hanno a suo tempo ottenuto pacificamente: una colonia di fatto, se non di diritto. Dunque vediamo i vari ministri degli esteri succedutisi dall'inizio del secolo affaccendarsi ad intessere un'elaborata rete di patti e contropatti tanto con i padroni del Nordafrica (Francia e Regno Unito), quanto con gli alleati della Triplice (Germania e Austria-Ungheria). Ciò che nessuno in Italia si perita di fare (e ne vedremo le conseguenze) è studiare seriamente cosa sia quella Libia sulla quale si stanno architettando piani diplomatici e militari.
Il primo motivo, esterno, che spinge l'Uomo di Dronero a precipitare le cose nel 1911, dopo quindici anni di oblio coloniale, è la seconda crisi marocchina. Il Marocco, in quanto non ancora formalmente colonizzato, era un altro di quegli spazi d'attrito che ogni tanto si creavano tra i grandi imperi coloniali europei (come lo era stato l'Alto Sudan al tempo di Fachoda). Stavolta l'attrito si materializza tra Francia e Germania, con i francesi che tentano di blindare il Marocco all'interno della propria sfera d'influenza e navi da guerra tedesche che eseguono minacciosi caroselli nelle acque di Agadir. L'ennesimo casus belli che potrebbe precipitare la belle époque direttamente nella Grande Guerra, ma che le diplomazie europee sono ben allenate a sterilizzare.
Fatto sta che la crisi marocchina convince il ministro degli esteri di Giolitti, il marchese siciliano Antonino Di San Giuliano, che il tempo per assicurarsi la Libia per vie pacifiche sia scaduto o in procinto di scadere. Che, dopo anni di attesa, sia "fatalità storica" affrettarsi.
Il secondo motivo, interno, è ben più influente nello spingere il governo italiano a decidere per la guerra. La politica giolittiana, fatta di pesi e contrappesi, in quell'alba degli anni '10 sta mostrando la corda: ormai non si tratta più di accordarsi fra gentlemen con quei bravi ragazzi dei socialisti riformisti, che saranno pure nipotini di Marx ma vestono come Palamidone. Stanno emergendo le ali estreme degli schieramenti politici, a destra e a sinistra. E stanno emergendo non tanto in forze (elettoralmente parlando, anche perché il suffragio è ancora ristrettissimo) quanto, soprattutto a destra, facendo un gran rumore. Sono i nazionalisti, che alla fine del 1910 escono con i loro primi giornali e aprono un fuoco di fila devastante sull'"Italietta" grigia, taccagna e rinunciataria dell'Uomo di Dronero; e sono, dalla parte opposta, i socialisti rivoluzionari che mettono ripetutamente in difficoltà la leadership del moderato Filippo Turati, lo sparring partner politico di Giolitti negli ormai archiviati anni zero. Inoltre sta per finire una volta per tutte l'assenteismo cattolico dalla politica dello stato italiano e il Presidente del Consiglio, che in politica ha buon fiuto, lo sa benissimo. Insomma il problema di Giolitti è questo: come tenere in pugno uno scenario politico che sta "impazzendo"? La risposta che il politico piemontese elabora è composita: suffragio universale maschile ed altre iniziative per legare a sé e fornire argomenti nella propria lotta intestina alla leadership socialista riformista; e una guerra (all'infedele, tra l'altro) da dare in pasto a conservatori, nazionalisti e cattolici. Parrebbe la quadratura del cerchio, politicamente parlando. Di fatto, sarà l'inizio della fine per Giolitti e i giolittiani, ma questa è un'altra storia.
Un ultimo aspetto mi pare vada sottolineato: il 1911 è l'anno del cinquantenario dell'Unità; un cinquantenario all'insegna del posizionamento dell'Italia nel novero delle grandi potenze, almeno per quanto riguarda le parole d'ordine che in quell'anno di celebrazioni bombardano gli italiani. Una sorta di conclusione del primo periodo di formazione dello stato italiano, con relativo passaggio ad un periodo di potenza, anche, non solo ma anche, mediante una guerra per molti versi simile negli intenti a quella dichiarata dagli Stati Uniti al decrepito impero spagnolo nel 1898.
Una guerra che riunisce in sé discorsi positivisti ampiamente condivisi al di là dell'ambito conservatore: "Nego all'Abissinia il diritto d'essere barbara" scriveva il repubblicano e progressista Giovanni Bovio già nel 1886, "e poiché a sbarbarire non son valevoli prediche e sermoni, ma contatti durevoli e commerci, così la storia non ci offre [altro] mezzo dalle colonizzazioni in poi."
Una guerra che perpetua in un qualche distorto modo lo spirito del risorgimento proprio quell'anno pervasivamente celebrato, proiettandolo sui libici: uno degli argomenti preferiti dei fautori dell'invasione è la "liberazione" degli arabi libici dal "giogo di Costantinopoli" presentato quasi come brutale epigono di quello austro-ungarico.
Una guerra, l'abbiamo già accennato, "all'infedele", che piace alla Chiesa, accompagnandone l'avvicinamento allo stato: "Con Dio per il Re e per la Patria" esorta un giornale cattolico rifacendosi esplicitamente al ricordo delle "crociate contro il turco".
Una guerra che non solo piace alle anime risorgimentale e cattolica, ma può addirittura farle convergere, per esempio nella figura di Teodoro Ernesto Moneta, unico premio Nobel per la pace italiano e fervente sostenitore dell'impresa; o nei danari del Banco di Roma, fortemente impegnato in Libia su sollecitazione di Giolitti già dal 1906, e retto dallo zio del futuro papa Pacelli.
Una guerra che risveglia nell'immaginario profondo di tante popolazioni italiane le figure minacciose del moro e del turco, promettendo nel contempo terre fertili e lavoro per le valanghe di emigranti costretti da anni a lasciare la Penisola.
Una guerra che può persino coniugare socialismo, nazionalismo e imperialismo nella celebre frase di Giovanni Pascoli "la Grande Proletaria si è mossa".
Una guerra in definitiva che, considerati tutti gli aspetti sociali, culturali e politici di quella Italia del 1911, Giolitti può di fronte ai propri concittadini acclamare come "fatalità storica".
Certo non nel senso che immagina, però.
2. "Come siamo andati in Libia".
È il titolo del libro nel quale Gaetano Salvemini, uno dei pochi oppositori dell'impresa, raccolse i suoi articoli, scritti prima e durante la guerra. Dunque, come siamo andati in Libia? La domanda è appropriata, soprattutto perché alla "fatalità storica" e alla determinazione di governo e opinione pubblica nel precipitare la situazione, si accompagna e fa seguito una disarmante superficialità e faciloneria, da parte soprattutto del primo, nel momento di fare la guerra.
Intanto faciloneria politica. Come abbiamo già accennato, nessuno si prende la briga di studiare la situazione della futura desiderata colonia, nemmeno quando si tratta di scrivere l'ultimatum, e soprattutto quando un anno dopo si firmerà la pace. La legge islamica impediva al sultano ottomano di alienare terre dell'Islam, e infatti Tunisia ed Egitto restavano sotto la sua sovranità nominale, pur essendo di fatto colonie rispettivamente francese ed inglese. Quando Giolitti e Di San Giuliano inseriscono nell'ultimatum una clausola sulla piena sovranità italiana richiesta su Tripolitania e Cirenaica, sanno benissimo che il sultano non può accettare. È una mossa a suo modo intelligente (i due vogliono la guerra, non una risposta positiva all'ultimatum). In compenso al momento di firmare la pace se ne dimenticheranno, concedendo al sultano l'emissione di un firmano (un editto) col quale questi confermerà la propria leadership religiosa: che era anche politica, come sarebbe stato chiaro se solo qualcuno tra i politici italiani avesse avuto un'idea dell'Islam dell'epoca. Poco male, non fosse che dopo la guerra (anzi, con la guerra che di fatto continuerà trasformata in guerriglia con i partigiani libici) il sultano non sarà affatto ben disposto verso l'Italia, e attraverso quel firmano di fatto legittimerà la continuazione della lotta agli occhi dei partigiani libici tornando ad aiutarli durante la Grande Guerra.
Altra figlia della mancata preparazione politica è l'illusione che gli arabi libici avrebbero accolto a braccia aperte i "liberatori" italiani. Illusione che non era supportata da notizie verificate (anzi, i consoli a Tripoli e Bengasi, Galli e Bernabei, continuarono fino all'ultimo a segnalare l'ostilità araba ad un'invasione "cristiana"); e nemmeno seguita da atti concreti che la trasformassero in realtà (posto che fosse possibile). La clausola della piena sovranità, cardine delle mosse diplomatiche e propagandistiche italiane, rese impossibile ad esempio l'appoggiarsi all'erede della dinastia Caramanli (che aveva governato Tripoli prima dell'avvento ottomano), il quale contava ancora parecchi seguaci in Libia. Non solo: il fatto che si mirasse chiaramente ad insediare un'amministrazione coloniale composta da italiani mise fuori causa l'intera élite economica e culturale arabo-libica, potenzialmente più interessata al mantenimento (o al conseguimento) delle cariche locali che alla solidarietà islamica.
Significativa a questo proposito è la petizione di un notabile tripolino:
Voi ci dite che i turchi sono barbari, ci dite di essere un popolo civile, di essere venuti ad elevare la nostra posizione individuale e collettiva, morale, culturale, politica. Trattateci per lo meno come ci trattavano i turchi: noi eravamo allora cittadini dell'impero turco, avevamo i nostri deputati a Costantinopoli, avevamo a Tripoli una specie di consiglio provinciale che si riuniva una volta all'anno con determinati poteri; avevamo i consigli comunali elettivi; le nostre autorità erano sempre rispettate perché eravamo cittadini. Avevamo ufficiali nostri nell'esercito fino al grado di generale; abbiamo avuto anche un governatore, che era nativo di Tripoli. [...] Non solo, ma avevamo la libertà di riunione, la libertà di associazione. [...] Avevamo un buon numero di giornali, in cui si dicevano alte e gravi parole contro il governo centrale.
Tutto sommato potremmo pensare che la questione della "liberazione" fosse stata montata ad uso e consumo dell'opinione pubblica interna (al pari delle storie sulla fertilità del deserto libico, alle quali in fondo nessuno credeva). Non fosse che Giolitti ordina alle forze armate di attuare, sbarcando in Libia, una "politica araba" che lui e Di San Giuliano non hanno minimamente preparato. Con quali risultati, lo vedremo presto. Prima ancora dello sbarco, comunque, la schizofrenia del messaggio mette in pericolo la pur striminzita comunità italiana di Tripoli: "Io cerco la sicurezza della colonia che mi è affidata. Roma vede invece soltanto la necessità di animare il nostro paese" scrive il console Galli il 18 settembre, infuriato (e terrorizzato) perché i giornali italiani distribuiti a Tripoli inneggiano compattamente alla guerra, facendo montare la rabbia non tanto fra i soldati turchi della guarnigione quanto tra i libici. È appunto grazie al comando ottomano che gli italiani possono essere imbarcati ed evacuati in sicurezza, poco prima del bombardamento navale.
Per fare una guerra, un governo deve ricorrere all'esercito. Delle forze armate italiane, la Marina aveva avuto un grande patron nell'ammiraglio-progettista-ministro Benedetto Brin, che sotto Crispi era riuscito a far passare (anche grazie all'appoggio dell'industria pesante) l'idea che la potenza militare italiana si misurasse sul numero delle sue grandi corazzate. Costruire una corazzata e addestrarne l'equipaggio era una spesa che agli occhi dei politici liberali garantiva un ritorno immediato: la si poteva esibire nelle parate navali, non era da mobilitare, poteva essere usata dimostrativamente con relativamente pochi rischi; insomma era facilmente spendibile la sua potenza scenografica e bellica. Altro discorso per l'Esercito: una divisione di fantaccini era una questione complicata, non sempre bella da vedere, costosa e pericolosa da mobilitare - le unità dell'esercito in tempo di pace avevano una forza ridottissima, quella data dai soldati di mestiere più al massimo due classi di leva; mobilitare l'esercito, ossia richiamare centinaia di migliaia di soldati in congedo, significava con ottime probabilità innescare una guerra. Di conseguenza l'esercito, sconfitto sul campo in tutte le guerre post-unitarie e privo di un avvocato del calibro di Brin, era decisamente meno stimato della Marina dai politici dell'età liberale, specialmente da Giovanni Giolitti (è rimasta celebre una sua frase secondo la quale si avviavano alla carriera militare "i ragazzi di cui non si sapeva cosa fare, i discoli e i deficienti").
Però per occupare una terra, allora come oggi, serve un esercito di terra.
Il Regio Esercito italiano del 1911, in realtà, era uno strumento paragonabile su un piano di parità a tutti i suoi omologhi europei.
Il corpo ufficiali era formato, ormai dal 1867, da un sistema complesso di scuole e accademie, e lo Stato Maggiore era perfettamente in grado di recepire le indicazioni dei governi ed elaborare piani di guerra secondo i dettami dell'epoca. Per esempio, sull'eventualità di un'invasione della Tripolitania, lo Stato Maggiore stilava periodicamente piani fin dal 1883 (a partire dal 1905, annualmente). Se un problema c'era, soprattutto in rapporto all'imminente operazione Libia, era la lentezza nell'aggiornamento dei programmi delle scuole militari: ad esempio non c'erano corsi di colonial warfare, anche anni dopo le guerre d'Africa. In effetti tutta la gestione degli affari coloniali era stata ed era il risultato di improvvisazioni: non esisteva un esercito coloniale sul modello francese, separato da quello metropolitano; esistevano volontari o soldati di mestiere comandati in Africa. Anche i generali avevano con poche eccezioni scarsissima esperienza di guerra oltremare: basti dire che nella guerra del 1911-12 solo due degli almeno venti generali dell'esercito impiegati potevano definirsi "coloniali", avendo combattuto in tutte le campagne dell'Africa orientale.
Paradossalmente, il primo dei motivi d'attrito tra Giolitti e i generali nel 1911 (e un'accusa spesso ripetuta in seguito) fu l'impreparazione dell'esercito alla guerra, che avrebbe costretto la marina a sbarcare a Tripoli da sola mantenendo la città per una settimana prima che il primo fante sbarcasse a sua volta, e perdendo così giorni preziosi. La questione è un po' diversa.
Il capo di stato maggiore Alberto Pollio e il ministro della guerra Paolo Spingardi, entrambi generali e massimi responsabili dell'esercito italiano dell'epoca, dovevano per lo meno immaginare qualcosa della possibile guerra già dalla primavera, se è vero che il generale Caneva, comandante designato d'armata con sede a Milano, riceve a partire dal mese di aprile dossiers mensili sulla Libia. Insomma, non ci sarebbe stato alcun motivo di inviarli se non si fosse immaginato di dover prima o poi mettere Carlo Caneva a capo di una spedizione. Tuttavia, lo stesso Giolitti afferma nelle sue memorie di aver ordinato "nel mese di agosto" a Pollio di aggiornare il piano d'invasione per la Tripolitania: abbiamo già detto come lo Stato Maggiore aggiornasse annualmente i piani, quindi Pollio esegue e rimane in attesa di ulteriori input. Che però non arrivano.
Per oltre un mese Giolitti tace, poi il 18 settembre sollecita il ministro della guerra Spingardi ad "affrettare i preparativi" per la costituzione di un corpo di spedizione. Cos'era successo? In un decisivo colloquio col ministro degli esteri Di San Giuliano, il 14 settembre, l'Uomo di Dronero si era convinto che fosse arrivato il momento giusto per la "fatalità storica". Spingardi, che evidentemente aveva dedotto dal silenzio del primo ministro la non imminenza dell'operazione, cade dalle nuvole e, nei limiti del rigido rispetto gerarchico che è tratto distintivo degli alti gradi italiani del periodo, si infuria: scrive al collega generale Brusati (aiutante di campo del re, e potentissimo alter-ego militare del sovrano): "siamo [evidentemente da intendersi "Giolitti è"] dissipati e imprevidenti". Già, perché pochi giorni prima Spingardi e Pollio, nulla sospettando, avevano firmato il congedo della classe di leva 1889, dimezzando la forza dell'esercito. Anche questo era un provvedimento annuale, peraltro sollecitato dalla politica (d'inverno si manteneva l'esercito sulla forza di una sola classe di leva invece delle due teoriche, per ridurre i costi), ed è impossibile che Giolitti non ne fosse a conoscenza; più probabilmente, non conosceva la macchina militare e non si rendeva conto del fatto di non poterla accendere spingendo un bottone, a piacimento e da un momento all'altro.
E dire che il presidente del consiglio aveva puntato tutto sulla rapidità della guerra: per dimostrare la potenza della "nuova Italia", e per minimizzare il rischio che il colpo al "grande malato" facesse scoppiare un conflitto europeo. Addirittura, al generale Pollio che nel suo piano preventivava un corpo di spedizione di 22.000 uomini, aveva imposto un raddoppio degli effettivi (fino a 40.000). Entro la fine della guerra i soldati italiani in Libia saranno 100.000.
Il risultato, comunque, è quello che abbiamo già accennato: la guerra viene dichiarata il 28 settembre; il 5 ottobre l'ammiraglio Faravelli, dopo aver smantellato a colpi di cannone secondo gli ordini i forti ottomani di Tripoli, si trova suo malgrado a dover sbarcare 1700 marinai per prenderne possesso (il corpo di spedizione si sta ancora formando a Napoli); solo il 12 ottobre, infine, il primo scaglione del Corpo d'Armata Speciale sbarca a Tripoli.
3. La guerra impossibile del generale Caneva.
Stampato presso il laboratorio fotolitografico d'artiglieria a Roma nell'ottobre 1911, il Manualetto per l'ufficiale italiano in Tripolitania era una pubblicazione ad uso interno dell'esercito italiano. Manualetti similari venivano stampati periodicamente sui possibili (non necessariamente probabili) teatri di guerra, nel quadro dell'azione di studio e preparazione affidata al Corpo di Stato Maggiore dell'Esercito. Quello sulla Tripolitania (di fatto, sull'intera Libia) era stato stampato una prima volta tra 1903 e 1904, e anche se la stampa del Manualetto 1911 avvenne in ottobre, a guerra iniziata, molti ufficiali sbarcati a Tripoli dovevano essere in possesso delle edizioni precedenti. Si trattava di un breve opuscolo, una quarantina di pagine, con allegate una serie di mappe topografiche della Libia e delle sue principali città. Oltre ad una serie di aspetti pratici e militari (reperimento dell'acqua, e sua potabilizzazione, le malattie endemiche, il clima, le unità turche stanziate nella regione, le loro uniformi, le fortificazioni), delineava anche lo stato delle conoscenze in materia di popolazioni e usanze religiose. Per quanto riguarda i rapporti con i libici, vi era un apposito capitoletto Norme di tratto con gli indigeni:
Gli indigeni sono come i bambini: vanno trattati con dolcezza, ma corretti con fermezza. È opportuno, nelle relazioni con loro, conservare sempre la calma, che essi apprezzano e, a dire il vero, usano in qualunque circostanza. [...] Chiunque tratti con loro deve tenere sempre presente, che il prestigio è il presidio più saldo, più efficace e meno costoso della sicurezza esterna e interna dei territori occupati. [...] È necessario tenere conto delle loro credenze religiose e non intralciarne il culto. [...] Occorre poi, assolutamente, rispettare le donne.
Non conviene scendere a troppa dimestichezza con gli indigeni, ma trattarli sempre con carattere uguale, punendo severamente qualunque tentativo, anche minimo, di sottrarsi all'autorità dell'europeo.
Altre indicazioni sull'elemento arabo si trovano nei capitoletti su Popolazioni:
L'elemento berbero-arabo è ignorante e diffidente, estremamente geloso della religione, delle donne e della proprietà, facile a corrompersi con regali e rispettoso solo della forza; esso generalmente odia il dominatore turco;
e Situazione militare:
Un corpo d'operazione in Tripolitania e Cirenaica avrà da combattere le truppe regolari dell'esercito ottomano colà di guarnigione, i redifs [miliziani "regolari"] indigeni richiamati alle armi e le popolazioni indigene, che eventualmente facessero causa comune con i turchi. [...] [I regolari turchi] istruiti come sono all'europea, devono essere considerati come un qualunque altro avversario di un esercito in Europa.
A parte essere un fantastico esempio di applicazione della linea della razza, il Manualetto evidenzia un fatto: l'esercito era consapevole della possibilità che gli arabo-libici non accogliessero i suoi fantaccini come liberatori, e anzi facessero causa comune con gli "oppressori" turchi trasformandosi in ulteriore elemento del problema militare. Inoltre, nel capitolo sulle usanze religiose, era sottolineata l'importanza fondamentale della confraternita della Senussia (che, oltre a disporre di almeno 30.000 armati, controllava tutta la Cirenaica e aveva centri anche in Tripolitania) come elemento non solo religioso, ma politico e militare da cooptare pena una guerra di lunga durata. Verrebbe quasi da dire che Giolitti avrebbe fatto bene a leggerselo quel Manualetto dal momento che, pur con tutti i suoi limiti, indicava chiaramente i due fattori che avrebbero fatto durare quella guerra non poche settimane (come l'Uomo di Dronero credeva) bensì vent'anni.
Il Corpo d'Armata Speciale lascia il porto di Napoli tra 10 e 12 ottobre 1911. Il generale Caneva ha l'ordine di dividere popolazione araba e guarnigione turca, trattando la prima come oppressa e da liberare, e la seconda come oppressore da scacciare. Piuttosto difficile, dal momento che quando il generale sbarca a Tripoli non c'è più, da ormai una settimana, alcun turco. La guarnigione si era ritirata nell'interno ai primi colpi di cannone della squadra navale, una settimana prima, mandando in fumo il piano originario di Caneva per catturarla. In verità, tra l'altro, non era stata la guarnigione turca in sé a sventare la minaccia: l'intenzione dei regolari turchi di non resistere allo sbarco era nota all'intelligence italiana, quindi Caneva aveva deciso di scendere a terra sulle spiagge al di fuori di Tripoli accerchiando la città; era stato Giolitti a mandare tutto a monte, ordinando alla marina di sbarcare direttamente a Tripoli una settimana prima che il corpo di spedizione fosse pronto.
Così, il 12 ottobre 1911, il generale Carlo Caneva e i primi 5000 fanti italiani sbarcano nel porto di una città silenziosa. La popolazione non è ostile, ma nemmeno accogliente. Osserva senza acclamare né manifestare dissenso. Il generale friulano (nato a Udine quando la città era ancora austro-ungarica) inizia a capire che qualcosa non va.
Già il 18 ottobre, dopo solo una settimana a Tripoli, scrive al ministro Spingardi che è illusorio puntare in tempi brevi ad una capitolazione dei regolari turchi (come pretende Giolitti) dal momento che questi si sono mescolati alle mehalle (tribù combattenti) arabe dell'interno; e che in ogni caso sarebbe una pessima idea attaccare, perché così facendo si cementerebbe l'unione tra turchi e arabi. Il comandante del corpo di spedizione suggerisce piuttosto una graduale azione politica, come si era sempre fatto nei conflitti coloniali. Osservazione ingenua: la guerra è un conflitto coloniale sul terreno, ma europeo sul piano della diplomazia internazionale. Già molti governi del vecchio continente (soprattutto l'alleato austro-ungarico) stanno premendo per una rapida cessazione delle ostilità, inquieti per i possibili sviluppi della situazione. Giolitti non intende sentire ragioni: la guerra va vinta, e subito. E per vincerla, continua a ripetere ossessivamente via telegrafo al povero Caneva, basta sconfiggere in battaglia la guarnigione turca.
Un altro generale si sta rendendo conto del reale stato delle cose. Ottavio Briccola, un anziano piemontese accomodante col prossimo più o meno quanto Vittorio Sgarbi, sbarca il 14 ottobre a Bengasi, capitale del vilayet cirenaico. Giolitti infatti presumeva che, occupati i capoluoghi delle due regioni che componevano la Libia, la guerra potesse considerarsi vinta. Però le istruzioni per Briccola, se possibile, sono ancora più assurde di quelle per il suo superiore Caneva: gli si ordina di intavolare trattative nientemeno che con il Gran Senusso, capo della confraternita omonima. Al di là dell'opportunità di usare come diplomatico improvvisato un generale che notoriamente insolentiva chiunque gli capitasse di fronte, e che non sapeva una parola di arabo né aveva idea delle usanze religiose del luogo, nelle istruzioni era scritto testualmente che l'esercito non sapeva se Giolitti avesse per caso già preso contatto con l'autorevole esponente politico-religioso arabo; e che quindi nel caso l'avrebbe dovuto fare Briccola. Comunque il problema non si pone: lo sbarco e l'occupazione di Bengasi, diversamente da quanto era accaduto a Tripoli quarantotto ore prima, comporta ben due giorni di aspri combattimenti.
E su chi combatte, Briccola ha le idee chiare: in un telegramma del 20 ottobre segnala a Caneva che il grosso della resistenza è condotto da irregolari arabi.
4. Gli arabi "traditori" e i "poveri italiani": Sciara Sciat, 23 ottobre 1911.
Oltre all'utilizzo dell'aeroplano in operazioni belliche, la guerra di Libia ha un altro primato. Molto più che in Crimea, più che nella guerra anglo-boera, quella del 1911 è la prima grande guerra dei giornalisti embedded. Furono più di cento i giornalisti accreditati presso i comandi italiani. I rapporti tra stampa, anche nazionale, e militari non sarebbero stati sempre idilliaci (soprattutto quelli tra gli inviati a Bengasi e il sulfureo generale Briccola), ma nei primi giorni della guerra non si verifica un singolo episodio di attrito. Il perché è molto semplice: in quei primi giorni la grandissima parte della stampa italiana non fa informazione, fa propaganda. Tra coloro che sbarcano col tesserino stampa in tasca ci sono peraltro i più bei nomi del nazionalismo, da Federzoni a Castellini. Il celebre inviato del Corriere della Sera Luigi Barzini, considerato dai contemporanei una delle firme più autorevoli del giornalismo italiano, scrive l'11 ottobre da Tripoli:
Noi giungiamo come amici lungamente aspettati ed inutilmente chiamati. Si direbbe che Tripoli sia stata sempre segretamente italiana.
E in effetti i pochi marinai sbarcati fin dal 5 ottobre non avevano avuto problemi con gli arabi, anche grazie all'abilità dell'ammiraglio Borea-Ricci che aveva mantenuto in carica i notabili arabi, cacciato i funzionari turchi ed emanato proclami dal tono paternalista ma politicamente ardito ("Voi siete ormai nostri figli. Avete come noi gli stessi diritti di tutti gli italiani dai quali non è lecito distinguervi"). D'altra parte, nella sua corrispondenza, Barzini avrebbe dovuto sottolineare una decina di volte quel segretamente: doveva trattarsi proprio di un gran segreto se il 12 la città era apparsa, come già abbiamo accennato, silente e indifferente allo sbarco di Caneva. E la situazione era peggiorata quando, giocoforza visti gli ordini di Giolitti, l'esercito aveva messo da parte tutti i notabili arabi: non era previsto che ad essi venisse concessa autonomia né una quota di sovranità. Non solo. Per quanto al corrente dell'importanza del fattore religioso, in quei primi decisivi giorni sia Borea-Ricci che Caneva ignorarono bellamente il muftì di Tripoli, destando nella cittadinanza araba risentimento per l'affronto recato alla sua massima autorità religiosa. In seguito Giolitti si sarebbe anche lamentato con Spingardi di come Caneva intrattenesse rapporti esclusivi con la comunità ebraica di Tripoli, reclutandovi interpreti, guide e funzionari, e aumentando lo sdegno dei musulmani; ma sinceramente non vedo cos'altro avrebbe potuto fare il povero Caneva, dal momento che gli ebrei tripolini erano l'unica componente della cittadinanza con la quale in quelle condizioni fosse possibile un dialogo.
Il 23 ottobre 1911 accade l'irreparabile. Dopo due puntate dimostrative condotte nella prima mattinata, l'ex guarnigione turca e alcune migliaia di arabi appartenenti alle mehalle dell'hinterland tripolino prendono d'assalto il caposaldo di Sciara Sciat, un villaggio nell'intrico dell'oasi di Tripoli che fa parte della linea difensiva italiana. È una strage. La mischia ingoia due intere compagnie di bersaglieri e coinvolge due reggimenti sui cinque che costituiscono la guarnigione: 21 ufficiali e 482 soldati italiani rimangono sul terreno. All'attacco, secondo le testimonianze unanimi degli ufficiali e dei soldati italiani coinvolti, partecipano in gran numero i "civili": gli abitanti dell'oasi e della città di Tripoli che si sollevano alle spalle della linea e fanno scempio dei reparti isolati a Sciara Sciat. Tre giorni dopo, il 26, altri 200 italiani muoiono in un ulteriore attacco a malapena rintuzzato da Caneva, che riesce a manovrare fortunosamente le scarse truppe di riserva.
Tra queste due date, e subito dopo, si consuma il massacro per mano italiana di oltre mille (alcuni dicono 4000) abitanti dell'oasi e della città di Tripoli, e la deportazione di altre migliaia di libici (le cifre variano dai 2500 ai 5000). Per avere un'idea dell'enormità di tali numeri, si pensi che la città di Tripoli aveva 30.000 abitanti, parte dei quali ebrei (non coinvolti nella repressione) e parte spostatisi nel deserto nei giorni successivi allo sbarco degli italiani. Stiamo parlando, insomma, di una percentuale vicina al 50% della popolazione araba.
Cos'è successo a Sciara Sciat?
Intanto una sonora bestialità militare ad opera del colonnello Gustavo Fara, comandante del reggimento bersaglieri: il futuro luogotenente generale della Milizia fascista, per salvarsi la pelle, aveva dirottato sul proprio comando l'unica compagnia di riserva, abbandonando al loro destino i reparti di Sciara Sciat e rischiando di far collassare l'intera testa di sbarco.
Il fatto importante è però un altro, non solo e anzi ben poco militare: com'era prevedibile, la popolazione araba non stava dalla parte degli italiani. Pare che i bersaglieri del colonnello Fara avessero ampiamente derogato dalle ferree regole di rispetto per donne, religione e averi degli abitanti dell'oasi, attirandosene il particolare risentimento; ma ciò non toglie che non da una contingenza (il comportamento dei bersaglieri) fosse scaturita la giornata di Sciara Sciat, bensì dall'organico legame tra turchi e libici, e tra i libici e la propria terra. Molti ufficiali della guarnigione turca erano di origine libica, e proprio costoro erano stati il collante che aveva saldato (almeno nelle prime settimane della guerra, poi se ne sarebbero occupate le rappresaglie italiane) notabilato arabo, popolazione e soldati della guarnigione. Alcuni militari turchi rimpatriati a fine guerra avrebbero poi dichiarato che l'attacco principale avrebbe dovuto esserci il 26, e che il 23 erano stati gli arabi libici a scagliarsi di loro sponte sugli italiani.
Sciara Sciat, in definitiva, può essere considerata a tutti gli effetti come l'inizio della resistenza libica.
Le lettere a casa dei soldati e degli ufficiali italiani, e le corrispondenze dei giornalisti embedded (non di quelli stranieri, però) parlano unanimemente di tradimento arabo. Tradimento de che, si potrebbe romanamente replicare? Eppure il termine ricorre ovunque nei documenti di quei giorni tremendi, corre sul filo del telegrafo tra Tripoli e Roma, viene stampato su tutti i giornali della Penisola, sarà utilizzato senza remore nella Relazione Ufficiale sulla guerra stilata dell'Ufficio Storico dell'Esercito (nel 1922). Certo, da un lato ci sono le esigenze della propaganda: quella che per mesi era stata presentata come una popolazione in fremente attesa dei propri liberatori, nel momento in cui si solleva in armi non può che essere traditrice, pena il disvelamento del gioco retorico. Ma c'è dell'altro. Caneva non è una testa calda, e ha perfettamente compreso quali gravissime conseguenze l'accaduto avrà sulla guerra, e sulla futura pace: il 6 novembre, due settimane dopo Sciara Sciat, scrive a Spingardi che "noi queste popolazioni dovremo pure un giorno governare colle arti della pace produttiva e della prosperità comune [senza approfondire] il solco di sangue che purtroppo ci siamo trovati nella dura necessità di dover scavare tra noi e i nostri futuri sudditi".
Eppure. Eppure il generale Carlo Caneva emana i primi ordini volti a limitare il massacro degli abitanti di Tripoli solo il 29 ottobre, dopo ben cinque giorni di carneficina incontrollata (o meglio, guidata dai gradi inferiori). Non solo: è lui a ordinare la deportazione di quanti scampano alle fucilazioni e alle impiccagioni sommarie, il che è forse peggio (nel corso della guerra saranno migliaia i libici a morire nelle prigioni italiane). È lui a rifiutarsi di fornire persino a Giolitti le cifre sulle perdite (italiane e arabe) delle giornate di Sciara Sciat, ed è sempre lui a coprire i massacri dietro la formula "talun caso isolato di eccesso". Il 13 dicembre, ad un Giolitti che lo tempesta di telegrammi con la richiesta perentoria di far sgomberare definitivamente l'oasi per evitare nuovi rovesci - che il primo ministro teme soprattutto per la "cattiva pubblicità" sui giornali esteri - il generale risponde: "Vostra eccellenza mi impone dovere precisare taluni elementi situazione. Come accennato [...] arabi oasi vanno distinti nettamente due parti, dietro e davanti nostra linea difesa. Arabi dietro nostre linee difesa furono giustiziati oppure deportati e loro territorio viene mantenuto deserto".
Anche Caneva in quei cinque giorni di follia dopo Sciara Sciat è folgorato dalla versione del tradimento arabo, anche lui che pur aveva intuito come gli arabi non ritenessero giustamente di dover nulla a lui e ai suoi.
Men che meno fedeltà.
5. Conclusione?
Come spiegare l'immane massacro attuato dagli italiani a Sciara Sciat?
C'è chi ha parlato di abitudine dell'esercito ad "assolvere basse opere nei confronti di popolazioni inermi", ricordando le cannonate di Bava Beccaris nella Milano del 1898. E c'è anche chi ha parlato di "attitudine coloniale" dei generali italiani nel trattare le popolazioni "liberate" all'inizio della Grande Guerra.
Mi sembrano interpretazioni riduttive: la mia impressione è che non di esercito italiano o di generali italiani si debba parlare, ma di élite dirigente italiana. E del suo rapporto con i "governati", di qualsiasi natura essi siano.
Al netto dei fattori razziali, che certo a Sciara Sciat svolgono un ruolo centrale nell'aumentare a dismisura le dimensioni della strage, e della comprensibile reazione da parte dei commilitoni dei 482 bersaglieri in gran parte brutalmente trucidati dopo essersi arresi: gli ordini per la repressione emanati nei giorni successivi al 23 ottobre sembrano davvero l'anticipazione di quelli destinati alle popolazioni "liberate" nei primi mesi della Grande Guerra.
Ma è questione di "attitudine coloniale"? Entro il 1913 la gran parte dei generali italiani che parteciperanno alla Grande Guerra rientra in patria, con alle spalle in media un anno di permanenza in Libia. Basta un anno, tra l'altro nella gran parte dei casi privo di episodi della gravità di Sciara Sciat, a formare un'attitudine in uomini di oltre cinquant'anni cresciuti secondo i canoni di una istituzione rigida, che da parte sua poco si occupa di colonial warfare?
Di più: durante la guerra di Libia i tribunali militari emettono 530 sentenze nei confronti di arabi "insorti", ma ben 440 a carico di soldati italiani. Come non pensare al regime disciplinare instaurato durante la Grande Guerra, che portò ad un numero di processi e fucilazioni sommarie tra i soldati italiani proporzionalmente (e in alcuni casi in valore assoluto) più alto che in ogni altro esercito? Come non pensare all'infame bollettino del generalissimo Cadorna nei giorni di Caporetto, col quale si accusavano i soldati di essersi arresi, piuttosto che ammettere di aver sbagliato qualcosa? Come non pensare a quell'altro evento seminale della storia dell'Italia unita che fu la vera e propria guerra contro il brigantaggio?
Insomma, sarà tutta colpa dell'esercito abituato a sparare sulla folla, o un fil rouge va cercato in una forma mentis dell'intera classe dirigente che ha attraversato la storia dell'Italia unita?
Per restare alla guerra del 1911: molti, molti anni dopo (nel 1946, alla Costituente) Benedetto Croce ancora parlerà di colonie "portate a vita civile" dall'ingegno italiano, e di "popoli che sono stati dal suo [dell'Italia] dominio grandemente avvantaggiati".
E Benedetto Croce non mi pare possa essere definito semplicemente un imbecille.
Forse il problema è più complesso.
BONUS TRACK.
Leggete attentamente questa descrizione, scritta da un giornalista embedded, di una folla di insorti libici:
Abbiamo ieri toccato con mano la miseria [...] forte della sua animalesca riottosità. Li abbiamo visti sfilare, gli slogan feroci, il frenetico sventolio delle bandiere [...] null'altro esprimevano se non la volontà di manifestare disprezzo, rabbia, veleno.
Perché attentamente? Non vi suona un campanello, da qualche parte? Leggetela ora:
Abbiamo ieri toccato con mano la miseria della sinistra italiana forte della sua animalesca riottosità. Li abbiamo visti sfilare, gli slogan feroci, il frenetico sventolio delle bandiere rosse null'altro esprimevano se non la volontà di manifestare disprezzo, rabbia, veleno.
Controllate in nota e inviatemi pure una e-mail di insulti, ma poi leggete anche i prossimi estratti. Stavolta non vi frego, sono davvero testi del 1911. Il (puerile) giochetto che vi ho propinato spero serva a far scattare qualche considerazione.
Anche qualche bambino è stato colpito: ma chi è stato il vigliacco? Il soldato che ha sparato nel gruppo o il padre e la madre che sparavano circondati dai pargoli?
O esercito calunniato! Chi non ha visto qualche volta i nostri bei ragazzi armati dividere la gamella e il pan di munizione con qualche povero vecchio? Chi non ha visto qualche volta uno dei nostri cari fanciulloni soldati con un bambino al collo?
Ancora nessun campanello?