Nel grande mare magnum, a livello globale, dopo la lenta agonia di MySpace, risulta vincitore Facebook, seguito subito dal famoso Twitter (poco, in Italia, in verità).
Spesso, sui quotidiani online e sui blog, si dibatte il tema privacy e diritto del consumatore. Be’, ve lo dico subito, le mie posizioni sono abbastanza delineate.
In primis, occorre chiedere la correzione del dizionario dei sinonimi e contrari. Il contrario di privacy è Facebook. Nasce proprio per questo: mettersi in vetrina, farsi conoscere, far leva sul virtuale per emanciparsi. Oltre che, ovviamente, perdere tempo, fare conoscenze, cazzeggiare e riallacciare nuovi e vecchi rapporti. Il tutto, per un servizio privato che non chiede canoni di abbonamento nella perfetta politica già rodata del meccanismo pubblicitario.
E i nostri dati sensibili? Ciao. Facebook vive di questo, campa sui nostri dati. Non è allarmismo, è un fatto chiaro. Basta cercare su internet e leggere in merito fiumi di articoli.
Facebook vive grazie alla presenza nel virtuale di persone reali. Così si spiega, sociologicamente, il suo successo, a prescindere da una user experience più o meno buona, che i signori di Palo Alto cambiano un mese sì e l’altro pure. Un successo che si sta replicando nel mondo mobile, tramite gli smartphone come Android o Apple. Quasi una carta di identità virtuale, fra non molto associata a qualche sistema di mobile payment, come del resto fa da tempo Apple con il suo iTunes.
In quest’ottica, la richiesta di un numero di telefono (come chiede ultimamente Google) è il minore dei problemi. Il che, naturalmente, fa capire bene perché Facebook abbia la regola dei nomi e cognomi veri, non nickname. Interessi di una strategia lampante. Una strategia che non approvo in questi termini, benché sia favorevole a una responsabilizzazione dell’anonimato su internet, fin troppo vago, confuso e spesso causa di spiacevoli situazioni di stalking e ingiurie.
Rifiuto quindi l’anonimato in rete? In molti casi sì. E per le segnalazioni anonime di reato, come facciamo? Facciamo, esistono sempre i workaround. Perché, queste segnalazioni non potrebbero rimanere anonime? Si sta parlando di un servizio pubblico di estrema importanza, non di un social network. Sottile e chiara differenze.
Ma non trovo neppure corretto che una persona psicolabile possa divertirsi in rete, verso chi magari mette la faccia e il proprio nome, e uscirne quasi sempre impunita. La strada della polizia postale, identificazione dell’IP ecc… non è affatto banale. E non è alla portata di tutti, figuriamoci dei minori.
Come sempre la scelta giusta è la via di mezzo, quella più difficile da perseguire. E anche vero però che Facebook, Twitter & CO sono servizi privati, non statali. Twitter ci mette mezzo secondo a cambiarti il nickname se lo pretende un personaggio pubblico.
Quindi? Nel momento in cui alcuni regole dettate non andranno a genio alla massa, la massa risponderà con un rifiuto. E, a quel punto, anche i colossi rivedranno alcune strategie.
Ma resta comunque un mondo virtuale. Dove la privacy è sempre più pubblica e dove, si spera, l’identità delle persone non sia associabile a un nick con il solo fine di essere e fare ciò che nella realtà non sarebbe possibile. Questo, a mio avviso, è ledere i diritti di chi utilizza la rete. Questo il vero danno. Perché, sia inteso, anche nel virtuale esistono dei limiti morali da rispettare. Fatto ultimamente sempre più a rischio.
Poi, come sempre, si può capire che forse è l’ora di uscire e stringere qualche mano vera.
Non solo il mouse.