Articolo di Giovanni Agnoloni
Dal blog di Easy Languages
Easy Langauges è un’agenzia di traduzioni che ha lanciato un interessate blog imperniato sulle traduzioni, letterarie e tecniche. Gli articoli vertono sui diversi aspetti del mondo e del mestiere del tradurre. Quello che leggete oggi qui è un mio contributo.
La professione delle parole
Ci si può chiedere quale sia il motivo per cui uno che si è laureato in Legge si mette a fare il traduttore; la ragione per la quale, giunto a metà del suo percorso universitario, scopre in sé una vena comunicativa che passa attraverso le lingue. Nel mio caso, l’aggettivo comunicativa ha decisamente senso, visto che il germogliare di questa passione ha avuto un doppio volto: da una parte, appunto, linguistico, e dall’altro letterario. E mi ritrovo oggi ad essere un libero professionista della parola, uno scrittore-traduttore. I due aspetti, in effetti, non si possono separare l’uno dall’altro. Lo stesso criterio che guida la scelta di un tema da trattare in un saggio o in un romanzo è quello che ispira il mio orientarmi nel mare magnum delle lingue con cui lavoro (inglese, spagnolo, francese e portoghese), che si tratti di traduzioni letterarie o di traduzioni tecniche (nel campo legale, commerciale, turistico e artistico). Si tratta comunque di dare una veste verbale a un flusso di energia che attraversa la mente e lo spirito di chi scrive o interpreta il pensiero di un altro autore.
La parola è uno strumento di individuazione, per dirla con Carl Gustav Jung, ossia una potente lente che ci permette di mettere a fuoco – appunto, scegliendo la parola giusta – il concetto o la percezione che si vuole evocare, attingendola dal pozzo del nostro essere per renderla testo. Ogni parola ha una sua vibrazione specifica. Owen Barfield, filosofo inglese amico di J.R.R. Tolkien e come lui membro del circolo degli Inklings, sosteneva che in origine le parole facessero tutt’uno con gli oggetti che rappresentavano, e poi, nel corso della storia, l’uso le avesse progressivamente allontanate da quella perfetta fusione, impoverendole. Compito dello scrittore, allora, come Tolkien stesso affermava, era quello di recuperare, attraverso una scelta sapiente delle parole, quell’unità originaria.
La parola giusta ci fa sempre provare una sensazione particolare: un ecco! di riconoscimento, che ci appaga come un bisogno soddisfatto. Perché scegliere le parole giuste è un bisogno intrinseco alla natura dell’uomo. Per questo sono convinto che il mestiere di traduttore e quello di scrittore – e dico di più, quelli di traduttore tecnico e traduttore letterario – facciano tutt’uno. Al di là dei diversi gradi di creatività (maggiore, certo, nell’attività scrittoria), della più spiccata esigenza di restare aderenti alla lettera del testo originario, nel caso delle traduzioni tecniche, e della maggior “aridità” di un testo giuridico o commerciale rispetto a un romanzo o ad un saggio particolarmente profondo, il bisogno di precisione linguistica che richiamano è esattamente lo stesso.
Nello scrivere si pone il problema di esprimere esattamente il mondo che si vuole evocare; nel tradurre un testo letterario si pone quello di interpretare lo stato d’animo o la situazione che l’autore intendeva suscitare, ma bisogna sempre andare a individuare la parola giusta. In una traduzione tecnica, quest’ultima esigenza è massima. Ma il meccanismo con cui si va a “pescare” i termini da usare passa attraverso gli stessi canali.
Forse è per questo che, nonostante la mia carriera di studente superiore, iniziata col liceo classico e proseguita con la facoltà di Legge, non ho mai pensato che il mio lavoro di oggi fosse in contraddizione con quel percorso. Laddove il latino, il greco e la filosofia mi hanno fornito gli schemi di riferimento e l’elasticità mentale per affrontare qualsiasi lingua moderna (studio tuttora il polacco), le materie giuridiche mi hanno dato il rigore di cui uno scrittore e un traduttore – e, ancor più, uno scrittore-traduttore – necessitano, nella loro attività di professionisti delle parole.
In fondo, scrivere, come anche tradurre – e qui uso consapevolmente la parola sbagliata –, è un po’ come jouer, “recitare”, in francese. È un “farsi tramiti” di qualcosa che va oltre noi.