- Te lo ricordi?, domando a un amico che era amico suo.
Lui torce il naso e la bocca, come a dire che non gli va di parlarne. La puzza di polvere da sparo aleggia ancora per via Buccari.
- Allora?, lo incalzo.
-Se lo meritava. Meglio a lui che a me.
Nella regola della mala barese, ogni proiettile evitato è una vita guadagnata.
- E se passava qualcuno?
- Moriva appresso a Cesare.
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- E mo che fai?
- Le macchine e gli appartamenti.
Di piccoli criminali come lui, la città in crisi s’è riempita. Ci sono interi quartieri come questo che brulicano di ex spacciatori a spasso, di ladri di ritorno. Non hanno più futuro nei ranghi della mafia, perché i clan hanno spostato i loro interessi verso l’alto della finanza e delle imprese. Loro, che hanno arricchito i capi spacciando erba a Picone e a Poggiofranco, sono stati fatti fuori per sempre dal bel giro. Devono accontentarsi delle briciole. Questo sottoproletariato sta minando la sicurezza cittadina, ma pare non volersene occupare nessuno.
- Ma un lavoro, no?
- E che faccio come lavoro? Il muratore? A quarant’anni? Tu hai studiato, io no.
Tornano le differenze sociali: io sono un borghese – anche se piccolo – e loro sono i miserabili che una volta giravano in Audi.
- E mo chi è che spaccia nella zona di Cesare?
- Nessuno. Lo spaccio sta fuori, lo fanno pure gli albanesi, ma io no.
La mala che conta assolda spacciatori stranieri, ricattabili nuovi schiavi, servi del padrone italiano. Li paga poco e li controlla di più. Ci sono albanesi e rumeni, tra questi: violenti, feroci, ambiziosi. Fatti della pasta degl’incubi.
- Allora quando stava Cesare era meglio.
Prima di rispondermi mi guarda a lungo. Cerca le parole giuste, infine le trova.
- Sai cos’era meglio? Che se non avevo una lira, pagava lui. Mo vado sempre a jurmo.
E già, a jurmo, a pancia vuota, come tutta la città che da quasi tre anni trema al rimbombo dei proiettili sui muri insanguinati di Carrassi.
- Vi siete fatti fregare, azzardo per provocarlo.
- Ci ha fregato la vita, a noi. Una volta stava giro per tutti, mo non c’è niente più. Ti ricordi?
Sì, ricordo le passeggiate a Picone, i saluti veloci davanti ai cespugli, le bevute e le canne offerte. Ricordo i muretti sbrecciati, le vespe saettanti, le ragazze indecenti e i loro primi figli.
- Sta cambiando il mondo, rifletto.
- Già cambiato. Da mo va!, mi risponde e mi lascia.
Tira dritto per la sua strada, deve aver adocchiato una Mercedes o una Bmw. Io m’incammino e passo davanti al muro di Cesare, infilo un dito nel foro di un proiettile, scrosto via un po’ di calce e vernice. Un passante mi osserva allibito, deve credermi un feticista delle crepe. Sfilo il dito, mi pulisco le mani e penso alla mia città, così cambiata e così uguale. Nel tempo, si sono rotti vecchi meccanismi, ma le pratiche sono le stesse. Capisco Cesare e la sua voglia di arrivare prima degli altri. Aveva senso in un mondo dove ogni regola è scritta perché il piombo e soltanto il piombo possa governare. Aveva scommesso su di sé, e adesso che la ruota ha compiuto un giro intero su se stessa, lui e la sua ambizione sono ridotti a questi piccoli fori su una parete di rimpianto.
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