[peggio solo l'India, tipo]C’è questo proverbio portègno che dice: a mate amargo, boca dulce. Un po’ il corrispettivo del nostro a buon viso cattivo gioco. Quando i Sigurrò hanno annunciato le tappe del loro tour europeo, che prevedevano anche un’apparizione al Rock In Roma, mancavano solo pochi giorni al genetliaco del mio amico latinoamericano. Ho pensato che sarebbe stata una mossa brillante, regalargli un biglietto. Dopotutto, a queste latitudini, è più semplice trovare biglietti che yerba mate. Qualche settimana dopo ero impegnato con sua moglie in una sessione di traduzione: in una pausa d’alfajores, mentr’eravamo sovrappensiero, come con un soffio di quelli che sparigliano lo zucchero a velo sul tavolo m’ha detto a proposito di quel fatto del concerto dei Sigur Ròs, no?, ecco: ovviamente lo accompagnerai tu. Non avevo mai sentito usare in maniera così definitiva e imperfettibile la parola ovviamente. Ed è stato un po’ come provare quello spavento che s’avverte sull’orlo del precipizio prima di buttarsi nel vuoto con le caviglie legate a un filaccione elastico, o davanti a un sorriso timido di ragazza che lenta si sfila le mutandine, o quando ti trovi a rimirarti un foglio bianco tra le mani: la paura connaturata in quegli assalti alla bajonetta alla verginità. Un tutt’uno d’esplosione vulcanica, vampata di zolfo, all-in di luoghi comuni sull’Islanda.E sia, mi son parlottato dentro. E sia, poi, trascinando all’azimut ogni tentativo di resistenza. A boca amarga, mate dulce, dopotutto. Davanti avevo un tramonto crepuscolare e vaporoso come quelli sulla Blue Lagoon di Reykijavik. Lo zucchero, nel mate, ce lo vuoi?, m’ha chiesto sua moglie, come non fosse successo nulla.
[qualcosa di simile a un alfajór inzuppato nel mate]
Se siete mai stati a un concerto in Argentina, sapete di cosa stiamo parlando. Se non ci siete mai stati dovete fidarvi, come me d’altronde, di quel che racconta il nostro amico del Sud America. Che dice cavalli, cavalli in ogniddove. E sopra ai cavalli: gendarmi. Di quelli coi baffi e cattivi, come in Pinocchio. Che ti scortano. Ti scrutano. E se per caso provi a chiedere una birra: pùnfete. Perché birre, continua l’amico portègno, birre mica ne vendono, dentro agli stadi in cui si svolgono i concerti. E allora devi portarti la sbronza da casa. E al concerto, poi, catapultarti mica al trotto: al galoppo. Ma che vuoi farci: a caballo regalado no le mires el dentado, dice. All’ippodromo di Capannelle i cavalli corrono sempre meno. Nondimeno, la struttura mezzofatisciente, la pista di pozzolana grezza, le balaustre pittate di bianco, ogni oggetto evocasuggestioni da mandrakata impecionata e pecoreccia. All’ippodromo di Capannelle c’è stato un periodo in cui - come transizione verso l’imborghesimento dell’happening, o a voler ribaltare il punto di vista picchiata verso la nazionalpopolarizzazione - dalle febbre pei cavalli s’è passati a quella per la Fiesta! latina - intesa come americana, va da sé: alette di pollo fritte, chimichurri e picàgna a imperlare l’aria d’effluvi che evaporavano per ricadere sulle pelli madide di sudore di tangueri, bailarini di salsa e samba e capoeira. Da un paio d’anni, all’ippodromo di Capannelle, invece, si svolge Rock In Roma. Il 28 Luglio erano in cartellone i Sigurrò ed è a quel concerto che siamo andati, io e il mio amico sudamericano.
[continua domani]