La regina dell'avana - finale -

Da Astonvilla
 Al mattino andiamo al PARCO DELLO YUNQUE, che è una montagna con la sommità piatta, già citata da Colombo nel diario del suo primo viaggio. Volendo si può anche raggiungere la cima, tanto è alta meno di 600 metri, ma noi ci accontentiamo di un'escursione nei suoi dintorni di foresta vergine, piante rare e piscina naturale. La passeggiata è molto facile e piacevole e la nostra guida, un negro che negli anni '80 - insieme a tanto altri sfigati - fu spedito da Fidel a combattere in Angola, ci mostra le specie tipiche come il fiore mariposa (simbolo di Cuba), la papaya, l'ananas, un fiore rosso che contiene un colorante naturale, e vari uccelli tra cui il colibrì. La terra rossa tende ad essere molto fangosa nella stagione delle piogge, ma oggi non dà problemi. La montagna a forma di incudine si intravede ogni tanto tra le palme, finché non arriviamo al fiume. Qui bisogna prima togliersi tutti i vestiti, poi guadare stando attenti a non bagnare la borsa e soprattutto a non farsi spazzare via dalla corrente. Potrebbe infatti capitare di poggiare male il piede sui ciottoli arrotondati e scivolare perdendo una o più ciabatte. Il bagno in questa pozza d'acqua freschissima è la solita meraviglia di tuffi e paesaggio e massaggio sotto la cascata.
Al ritorno ci fermiamo nuovamente sulla spiaggia Maguana, dove prendiamo posto in una zona più defilata e dunque poco permeabile alle seccature del giorno prima. Però il cielo è coperto, si alza un venticello fresco e l'acqua non invita al bagno, così mangiamo un perro caliente all'ombra e passeggiamo, prima di tornare a Baracoa.
E' ancora giorno così si può visitare la cittadina, tranquilla e affascinante. Al centro c'è la Catedral de Nuestra Señora de la Asuncion, che custodisce la croce che probabilmente Cristoforo Colombo piantò sulla spiaggia di Baracoa nel suo primo viaggio, oppure - più verosimilmente - che qualche altro spagnolo dell'epoca portò dall'Europa. Di fronte alla chiesa c'è il busto del capo indio Hatuey, il primo guerrigliero cubano, che all'inizio del 1500, dopo mesi di strenuo combattimento in difesa del suo popolo, fu torturato e ucciso sul rogo dagli spagnoli.
Passeggiando senza meta si incontrano gallerie d'arte e centri culturali, murales e fiancate di legno dipinto, locali e bancarelle, corsi di salsa frequentati da tardone con ballerini carini e turisti europei rapiti dall'atmosfera. Andando verso il mare capitiamo casualmente in una strada panoramica dalla quale si ammira tutta la baia arrossata dall'atardecer, con quel trapezio dello Yunque a fare da guardia e un relitto abbandonato nel mezzo. Proseguendo si arriva al Malecon, guarnito da orrendi palazzoni, alcuni dei quali sventrati dal terribile uragano del 2008.
Alla Casa de la trova già suonano, così mi fermo con i capelli ancora bagnati. Un gruppo di ragazzi del posto vuole insegnarmi a suonare il guiro, anche perché hanno capito che di ballare proprio non ne voglio sapere. In realtà non riescono a capacitarsi di questo mio disinteresse. Uno di loro, che mi accompagna a fare due passi, mi confessa che, anche nei suoi momenti più tristi, la musica lo rende felice e gli fa scordare tutti i guai. Non riesce a star fermo, ce l'ha nel sangre! Non capisce come è possibile che io non lo senta allo stesso modo. Naturalmente è disperato perché l'indomani partirò e tutte le volte è così e come sono sfortunato e insomma il melodramma incombe. Ma se ci stiamo parlando soltanto da due minuti!
Stasera si cena fuori, al Colonial, con la solita monotona scelta tra peccao, langota, poio e serdo, l'insalata mista di verdura cruda (lattuga pomodori cetrioli cavolo) e il riso con fagioli neri piccoli, chiamato Moros y Cristianos. Di nuovo alla Casa de la trova e di nuovo alla Terrazza, ma stasera pioviggina e io mi sono rotta il cazzo degli occhi da pesce lesso, di quelli che vogliono insegnarmi a ballare e di tutta questa gente che dice sempre le stesse cose e del presentatore pomposo e del tizio col cappellino e del suo amico vestito di bianco e del rum e dei culi a mongolfiera dentro ai pantaloncini corti. E insomma vado a dormire.
TRISTE SOLITARIO Y FINAL

A colazione, mentre bevo un ottimo frullato di fruta bomba (papaya), faccio conversazione con Rafael. Guardando il mio passaporto, mi comunica che siamo nati lo stesso giorno. Ci tiene che io sappia che il 10 ottobre è una data simbolica molto importante a Cuba, perché in quella data nel 1868 il dueño Carlos Manuel de Céspedes liberò tutti i suoi schiavi al suono della campana dell'ingenio e da lì ebbe inizio la lotta contro la dominazione spagnola.
Sul lungomare nuvoloso, prima di partire, un nodo in gola mi prende mentre dal bar sparano a tutto volume un pezzo di Ramazzotti che canta in spagnolo. Con gli occhi lucidi osservo gli abitanti di Baracoa, pazientemente in fila per le galletas, e la tenerezza mi invade guardando Pedro che, accanto al bus Viazul, sorride nonostante la stanchezza, mentre si abbottona la camicia azzurra da autista, che ha appena indossato sopra la canottiera verdone. Sta per accompagnarci a Santiago; in serata ci lascerà all'aeroporto, dove ci attende un volo interno per l'Avana.
La strada è la stessa dell'andata, con i cactus e la costa scoscesa e le folte palme e la sosta nell'anonima periferia di Guantanamo per mangiare le pizzette al formaggio dalla consistenza cementizia. Nel bus intanto si accumulano banane e mandarini per la famiglia di Pedro.
Sulla strada è un continuo di manifesti di propaganda governativa, che per esempio vorrebbero far venire voglia di lavorare grazie a queste simpatiche formicone che recitano: Nos trabajamos y tu?

Ma se questi non hanno voglia di lavorare! - continuano a ripetere sprezzanti gli ultimi della classe, seduti in fondo all'autobus. Guardate - proseguono - più della metà delle terre sono incolte. E poi li vedi sempre a ciondolare e a fare un cazzo. Che poi, prima avevano l'Unione Sovietica, adesso hanno la Cina che li aiuta. Troppo comodo. Cominciate a dissodare tutti questi terreni abbandonati invece di grattarvi il culo.
E io mi chiedo perché l'essere umano dovrebbe aver voglia di lavorare. In un mondo normale, non dovrebbe essere vietato sprecare un terzo della nostra vita per il lavoro?
Ad un certo punto ci fermano ad un posto di blocco. Si presenta un omino con in mano un enorme motore diesel travestito da disinfestatore. Ci dicono che c'è un'epidemia di dengue: i compagni di bus, dopo aver letto cos'è la dengue sulla guida, si spruzzano litri di autan.
Mi sveglio a SANTIAGO, in plaza de la Revolución, davanti al monumento equestre ad Antonio Maceo, una statua circondata da venticinque lame di machete. Ci fermiamo solo pochi minuti per scattare qualche foto e poi veniamo abbandonati in centro dove verrà a riprenderci Pedro.
Questa passeggiata domenicale è nuvolosa e malinconica, ci prendiamo un refresco alla Casa del tè e lì compare questo rasta che nell'ordine ci propone: marijuana, cd del suo gruppo reggae, ragazze/i. Poi scrocca la birra. Infine spunta fuori questo bambino piccolo che necessita il latte in polvere. La pazienza ha un limite.
Lunghe attese all'aeroporto "Antonio Maceo". Arriviamo all'hotel dell'Avana al solito orario improponibile dopo esserci congelati letteralmente, visto che c'erano circa 20 gradi di differenza tra il profondo oriente meridionale di Santiago e la latitudine dell'Avana, che sta esattamente sopra al Tropico del Cancro.
MAOMENO

L'ultimo giorno, un taxi collettivo con un CUC mi porta al centro dell'AVANA. Al Capitolio stazionano una quantità di personaggi che si arrangiano come possono e che dobbiamo allontanare con la forza per poter tornare l'ultima volta all'Avana vecchia. Oggi ci sono molti più turisti del 23 dicembre, mentre i ragazzi cubani sono già tornati a scuola.
Mi rendo conto che non ho comprato nemmeno un souvenir e così investo i miei ultimi CUC in qualche oggettino fatto per i turisti (che gli manca solo la scritta sopra "sono un souvenir di Cuba", anzi forse ce l'hanno): portacenere e calamite in terracotta dipinta, biciclette e aeroplanini in latta riciclata, cappelli del Che e borsette stampate in cotone scadente. Pranzo con un perro caliente da 10 centesimi di euro e poi bevo con Ana una pinta di birra al bancone di legno, tra chitarre e contrabbassi appoggiati per terra, a chiarire i punti di vista sulle cose.
Lazaro ci aveva dato appuntamento alle 3 ma arriva circa due ore e mezza dopo, nonostante possieda un orologio digitale parecchio ingombrante. La casa si è allagata, si giustifica. E sì, perché in questo paese pieno di cervelloni, l'acqua è razionata e arriva - se va bene - due volte al giorno e gestire queste cisterne casalinghe a volte è un problema. La paranoia di dieci giorni fa è, se possibile, aumentata. Continuiamo a maledirci per non aver portato almeno uno dei vari cellulari vecchi e da buttare che abbiamo nelle nostre case italiane. Seduta accanto a lui sulla scalinata dell'Università dell'Avana, con in mano un libro di Graham Greene tradotto in spagnolo, mi chiedo come si fa a vivere senza acqua ma con l'armadio pieno di scarpe All Star. Come si fa a guadagnare 10 euro al mese e spenderne 150 per comprare un cellulare. Come si fa a diventare il più grande neurochirurgo di tutti i tempi e studiare su libri così vecchi. Come si fa a vivere in un mondo che ci mette in testa dei desideri così poco naturali, e poi magari non ci permette nemmeno di esaudirli.
E mentre guardo i muri scrostati, i ragazzi che giocano a pallone, il cielo nuvoloso che incombe, mi domando in cosa consisterebbe secondo loro questa justicia tanto sbandierata e fino a quale victoria, precisamente, dovrebbero combattere, quando invece tutti sappiamo come andrà a finire e andrà a finire nel solito modo e in quello sì, che stiamo diventando tutti uguali, come qualcuno sognava. .

Alle sette NON arriva il bus prenotato per l'aeroporto, per cui ci imboschiamo in un altro guagua che stava caricando della gente. All'aeroporto "Josè Martì" della capitale cubana, giusto per rendere l'idea della temperatura interna, avevo tirato fuori il piumino invernale.
Il ritorno non me lo ricordo, mi sa che ho dormito siempre. E forse ho pensato al puzzle da finire. Al fatto che il cuba libre non si fa con la Coca Cola ma con la Tu Kola, ad esempio. Oppure che a scuola gli insegnano gli scacchi, forse perché piacevano al Che. Magari mi sono chiesta come mai in quasi tutto il mondo giocano a domino, tranne che in Italia. Potrei aver pensato al motivo per cui usano barricarsi in casa con quelle grate così elaborate, nonostante il numero di furti sia relativamente basso. Avrò pensato alla incomprensibile passione per il baseball, o al fatto che assomigliano tanto ai nostri ragazzi di provincia, tanto fissati con le marche pacchiane. Mi sarò domandata se è meglio avere i muri tappezzati con le frasi poetiche del Che oppure le città piene di manifesti di femmine provocanti in biancheria intima e faccioni rivoltanti di politici.
O forse avrò semplicemente dormito, mentre sulle palpebre chiuse scorrevano i sorrisi di tutti quelli a cui basta veramente poco. Maomeno.

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