Ciò che spiazza di un regista come Stephen Frears è probabilmente la sua estrema capacità adattativa. Passa senza colpo ferire dal film in costume ad alto budget stile Le relazioni pericolose (1988) alle mini-commedie proletarie alla Ken Loach come The Snapper (1993), dal provocatorio caleidoscopio sessuo-razziale di My beautiful laundrette (1985) al thriller patinato tipo Mary Reilly (1996).
Di solito i cottimisti dei quotidiani, che recensiscono i film a colpo singolo si alternano nel dargli del venduto a Hollywood, del rimbambito o del genio, a secondo di quanto hanno gradito la vicinanza del film alla loro stereotipa idea del cinema inglese (che temo sia ferma al Ken Loach degli anni ’90).
Fuori da questi infantili lettini di Procuste, Frears si conferma un regista interessato al gusto figurativo, all’ars combinatoria e all’indagine del rapporto fra rappresentazione, immagine e cultura di massa, cosa che già spiccava nel suo bellissimo The Queen (2006). Nei suoi film tutti hanno qualcosa da nascondere e nessuno ha la coscienza perfettamente a posto, proprio come nelle opere del caro zio Fredo (citato da qualche critico, piuttosto a proposito).
In questo senso Tamara Drewe è un’opera esemplare. Un piccolo e apparentemente tranquillo paese nella campagna del Dorset, un gruppetto di scrittori svitati, un borioso autore di best-seller, il fantasma di Thomas Hardy, storie di corna provinciali, comiche interazioni anglo-americane, ex-villani con laurea, rocchettari narcisisti, ragazzine assatanate di sesso e fama, e-mail, sms, vacche e galline. Al centro di tutto il post-modern, Tamara, procace giornalista à la page che si è rifatta il naso e ha scoperto la felicità, ma ancora non ha capito come viverla (e soprattutto con chi).
La ragazza torna al paesello e inanella una serie di relazioni che sembrano oscillare sull’orlo fra il disastro e il trionfo. Come in una risposta al Woody Allen di Match Point, il caso che aveva innescato tutto si occuperà di far tornare di nuovo tutto a posto, compresa la morale e le apparenze. Verità o finzione? O verità della finzione? Una cosa è certa: chi racconta è sempre un gran bugiardo o un gran ladro, che sia scrittore o che sia regista.
Andatelo a vedere, in lingua originale se possibile per non perdere la strepitosa recitazione del cast, e se non ci troverete tutta la metariflessione sulla rappresentazione che ci ho visto non dubito che almeno passerete un paio d’ore in compagnia di ottimi attori.
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