William Shakespeare, Re Lear.
E fu così che il vento
mi costrinse, a fior
di pelle, irritante umidore,
sotto il dominio di suscettibili
elementi. Ostro, vecchio
teatrante, che fai la voce
grossa di buriana e duri
come brezza, nell’indolenza
del meriggio estivo; e tu,
ammorbante scirocco, che addensi
copiose nubi stitiche
e la salsedine sottocutanea
inietti, fino alle stanche
ossa; mefitico libeccio,
la fragranza della poseidonia
ancora fresca a stento copre
il guasto che produci;
l’accumuli superbo, ma non ti rendi
conto d’essere al servizio
del tracotante maestrale;
sull’uscio che tu apri,
s’insinua il provenzale
e s’appropria del lavoro
che ti è costato, o libico,
la schiena dritta, la nobile figura.
Meglio il levante che gonfia
cielo e mare e le promesse
mantiene; o la tramontana
che taglia facce e gela
umori lavici che non hanno sfogo.
Ma il solo che mi è caro
è il greco dal soffio fresco
e raro, che nelle fredde
ondate siberiane impregna
l’aria di un odor di neve,
di uno scintillìo cristallizzato.