Posted 25 aprile 2014 in Critica letteraria, Slider with 0 Comments
di Stefano Magni
Ci sono persone per cui la Resistenza non è mai finita. Nel grande calderone dell’ingiustizia e dell’abuso, gli eroi diventano colpevoli di tradimento, e i traditori diventano eroi. Ante Zemljar ha fatto la Resistenza in Jugoslavia, contro i nazisti e i fascisti. Poi il Maresciallo divenuto padrone assoluto lo ha chiuso in una cella perché “traditore” della patria. Lui, che la Jugoslavia l’aveva difesa anche contro i suoi troppo interessati difensori. E’ morto nel 2004, per chi volesse saperne di più, consigliamo la lettura de L’inferno della speranza, una raccolta di poesie.Già, perché era poeta Ante. E non Maresciallo.
(da La Casa della Poesia) Ante Zemljar, poeta croato e professore, può considerarsi un simbolo. Il simbolo dei perseguitati dai totalitarismi del XX secolo. Braccato dai nazisti e dai fascisti che occupavano la Croazia, eroe della resistenza partigiana, fu poi internato da Tito nel gulag di Goli Otok assieme a migliaia di altri dissidenti. “Bastava dire una sola parola di critica contro i nuovi padroni, contro il regime di Tito, per essere internati in un campo di concentramento. Tanti eroi della resistenza contro i nazisti, tutti combattenti per la democrazia e la libertà, sono stati vittime della repressione del nuovo dittatore”.
Ante Zemljar, l’aspetto sereno, nonostante un passato che difficilmente passa, si scusa per il suo italiano “peggiore di quello di un bambino”. E inizia a raccontare come sia entrato nel vortice della persecuzione totalitaria: “Ho preso le armi contro i nazisti, quando ho visto che cosa hanno fatto agli ebrei nell’Isola di Pag, dove sono nato e dove vivevo. Ne hanno ammazzati a migliaia: tutta brava gente che non aveva mai fatto del male a nessuno. Sono morti anche tanti miei amici, fra cui un mio professore, del liceo classico, originario di Zagabria”.
La sua prima forma di protesta fu molto pacifica: non potendo fare nulla per gli ebrei che erano stati internati nel campo di concentramento di Pag, non potendo neppure avvicinarsi al filo spinato, il giorno dei morti, con un gruppo di amici, dedicò una corona funebre alle vittime della repressione e la pose sulla croce centrale del cimitero. Dal giorno seguente, la polizia della guarnigione italiana incominciò a dargli la caccia. “Solo che fino ad oggi non mi hanno trovato. Ed è solo per questo che sono vivo e posso ancora parlarne” dice con una risata di soddisfazione. Subito dopo andò sulla terraferma, sulle montagne, a combattere nelle file dell’esercito della resistenza.
Divenuto ufficiale, decorato, alla fine della guerra lasciò l’esercito “Io sono un poeta, non volevo passare il resto della mia vita sull’attenti”. In un film di propaganda di sinistra o in un qualsiasi film sulla resistenza, il finale potrebbe essere questo: l’eroe della resistenza che, dopo aver combattuto vittoriosamente i nazisti e i fascisti, dismette la divisa per tornare ai suoi studi. Ma la realtà era ben diversa, nella Jugoslavia di Tito, quella Jugoslavia che molti rimpiangono come esempio di “pacifica convivenza dei popoli”.
“Abbiamo incominciato a renderci conto della vera natura di Tito quando incominciò la sua lotta personale contro Stalin. Non ci si prospettava più un futuro di pace e progresso, ma una nuova guerra. Incominciammo a contestare il regime di Tito, quando vedemmo che non aveva più niente di democratico. E tutti noi avevamo combattuto per democrazia e per la libertà di ogni uomo. Io ero un poeta, forse l’unico nella guerra partigiana, ma il realismo socialista condannava ogni forma di poesia e di arte non allineata. Non ho potuto scrivere nulla, nemmeno quando hanno incarcerato molti miei colleghi, molti giovani che rappresentavano il meglio della cultura del paese. Mi sono limitato a dire, in privato e a bassa voce, che bisognava buttar giù quelle quattro merde che tenevano il potere per restaurare la democrazia. E tanto bastò per farmi arrestare. Un anno e mezzo fuori Zagabria, sepolto vivo, sottoterra, dove un cane non potrebbe resistere nemmeno un giorno. E poi a Goli Otok (“Isola nuda”, dove fu prima incarcerato e poi condannato ai lavori forzati, ndr), dove abbiamo provato sulla nostra pelle quello che neanche i russi sotto Stalin hanno subito. Perché il titoismo è molto peggiore dello stalinismo, più perverso, più raffinato. Stalin ti confinava a Kolyma o in Siberia e ti dimenticava là. Sotto Tito eri seguito ogni giorno, torturato, rilasciato, ripreso e torturato in modo ancora peggiore. E così via, finché non avevi cambiato testa o non eri del tutto stroncato.”
Ante mostra la mappa del carcere di Goli Otok, un vero e proprio girone infernale, scavato nella roccia, con un baraccamento dove i prigionieri erano stipati come sardine, una piccola cucina con annesso spazio per le torture, dove i prigionieri più sfortunati venivano torturati e picchiati davanti a tutti, “anche davanti agli occhi degli ufficiali jugoslavi che, secondo me, erano lì a godere nel vederci picchiare”. Un unico bacino d’acqua, lontano, in cima a una lunga salita.
“L’inferno della speranza” si intitola il libro di poesie che Zemljar ha dedicato a quel gulag. “Molti miei amici, valorosi ufficiali della resistenza, non hanno resistito. Alcuni si sono tagliati la gola usando anche i cucchiai, in assenza d’altro. Altri sono completamente impazziti”. Racconta come, in modo avventuroso, è riuscito a scrivere e a conservare le sue memorie, scrivendole su pezzi di sacchi di cemento e nascondendole sotto i sassi. “Quando, dopo cinque anni, mi hanno liberato, quel libro non l’ho fatto vedere a nessuno. Nemmeno mia moglie sapeva della sua esistenza.” E’ solo per questo che le sue memorie sono arrivate fino ad oggi. Per Ante Zemljar non c’è pace, nemmeno oggi, in una Croazia indipendente e post-comunista. Per la sua risaputa amicizia con gli ebrei e per il suo passato di resistente, gli i neo-ustascia vicini a Tudjman gli hanno devastato la casa.
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