La riforma del lavoro al vaglio di San Tommaso

Creato il 23 marzo 2012 da Lalternativa

La riforma del lavoro e la modifica dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori: è proprio tutto vero quello che ci dicono? Il problema del mercato del lavoro sta proprio nell’art. 18? quali sono gli effetti delle recenti modifiche normative e quali, invece, gli obiettivi dichiarati?

Partiamo con un po’ di fatti: cosa è l’art. 18? cosa dice? di che problemi si occupa e come li risolve?
Troppo spesso i commenti su queste tematiche si risolvono in sterili prese di posizioni a favore o contro, del tutto pregiudiziali e slacciate da una analisi concreta dei contenuti di cui si discute.
É quindi fondamentale, per non rischiare di dare solo aria alla bocca, partire innazitutto dal dato normativo, ovvero dalla lettura, pura e semplice, del tanto menzionato, vituperato e forse anche in alcuni casi abusato, articolo 18 della legge 300 del 1970, meglio nota come “Statuto dei Lavoratori”.
Sarebbe decisamente troppo lungo addentrarsi in una spiegazione puntuale delle singole regole contenute in questa disposizione normativa. Conviene però soffermarsi su quella che ne costituisce il nòcciolo, ovvero la parte in cui si afferma che “il giudice, con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento (…) o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro”.
É proprio questo il punctum dolens del dibattito che, troppo spesso in senso univoco ed a sproposito, si è scatenato nelle ultime settimane ed è poi esploso con l’annuncio del Governo Monti e del Ministro Fornero (per carità, non chiamatela Ministra o “la” Ministro, se no si arrabbia!) di aver chiuso le trattative con le parti sociali e di essere pronto a presentare alle Camere il proprio Disegno di Legge (probabilmente una legge delega) relativo alla riforma del mercato del lavoro.

L’articolo 18 è stato un vero e proprio spauracchio nel panorama normativo, economico ed imprenditoriale italiano, sin dalla sua emanazione oltre quaranta anni fa. Pur essendo, come tutto lo Statuto dei Lavoratori del resto, tutto sommato poco più che una ratifica normativa di anni di consolidata prassi giurisprudenziale, esso rappresenta allo stesso tempo forse il maggiore risultato delle lotte sindacali sviluppatesi negli anni che ne precedettero l’emanazione.
Non era certo una norma rivoluzionaria e certo non rappresentava un freno alla crescita dell’economia e dell’impresa, ma era un simbolo: il simbolo dell’acquisito riconoscimento del lavoro non solo come semplice contratto fra un imprenditore ed un lavoratore, o uno scambio di denaro in cambio di servizi, ma come valore umano qualificante. Come “diritto”, in fin dei conti, esattamente come veniva definito dalla nostra Costituzione.

Cosa significava questa norma? Semplice: non si può essere licenziati senza un “giustificato motivo” e se ciò avviene, il valore leso non essendo solo un interesse economico ma un diritto individuale, la reazione dell’ordinamento non poteva essere solo una bonaria pacca sulla schiena del lavoratore ingiustamente lasciato a casa, con la relativa consegna di una busta più o meno piena di denaro, bensì l’imposizione al datore di alvoro che ha licenziato male di “reintegrare” il lavoratore nel suo posto, cioè reinserirlo nell’azienda nel ruolo e con il trattamento economico che gli sarebbero spettati se non fosse stato ingiustamente licenziato.
Il lavoro rende l’Uomo degno e la vita degna di essere vissuta e proprio per questo, se qualcuno ce lo toglie senza un motivo, abbiamo il diritto di essere aiutati dallo Stato a riottenerlo.
Questo era – ed è – l’articolo 18. E proprio per questo, fin dal principio, questa norma fu vista come il vero nemico da chi, invece, aveva ed ha interesse a ridurre il lavoro ad un mero fattore economico, privo del tutto di implicazioni etiche e sociali. Io ti pago per fare qualcosa e tu la fai. Basta, tutto qui! di cosa andiamo cianciando di diritti, dignità e fesserie simili? il lavoro è soltanto un fattore produttivo e tutto il resto non sono altro che chiacchiere.

Per questo, fin dagli inizi e per oltre quarant’anni, si sono dette le peggiori cose del povero art. 18. Ora accusato di essere la causa vera e profonda della mancata crescita delle aziende italiane, che piuttosto che subirne la orribile applicazione avrebbero preferito soffrire di nanismo, conservando dimensioni esigue e un numero di dipendenti inferiore alle 15 unità. Oppure accusato di essere il pretesto per inconfessabili pratiche sindacali, che sventolandolo come una minaccia, avrebbero tenuto ostaggio i poveri imprenditori delle peggiori nefandezze, tutelando chi non ne avrebbe avuto diritto e sarebbe invece stato più che giusto licenziare.
Insomma, a detta di molti – da una sola parte – sarebbe stata proprio colpa dell’art. 18 se l’economia italiana non è cresciuta, se le imprese italiane sono rimaste troppo piccole per reggere alla concorrenza internazionale, se la produttività del lavoro in Italia è rimasta fra le più basse dei paesi occidentali.
A forza di sentir rispetere certe cose, si rischia di esserne convinti. Lo sanno bene gli esperti di comunicazione: una bugia ripetuta cento volte e in tutte le salse, inevitabilmente finisce per passare come una sacrosanta verità.
Ebbene, quelle che ho appena menzionato sono appunto niente più che delle traballanti bugie.

Non è vero, innanzitutto, che, per evitare l’applicazione dell’art. 18 – e in realtà si dovrebbe dire di tutto il sistema di tutele definito nell’intero Statuto dei Lavoratori – le imprese siano state costrette a rimanere sotto i 15 dipendenti.
La ragione di questo fenomeno è da ricercarsi piuttosto in ragioni di carattere macro-economico e strutturali del mercato e del sistema produttivo italiani. Chi caldeggia questa tesi, inoltre, dimentica di dire che in realtà, la scelta di tenere lo Statuo dei Lavoratori e l’articolo 18 fuori dalle c.d. piccole aziende, fu una scelta motivata dal fatto che, per realtà produttive così piccole, si pensava fosse giusto lasciare un maggiore spazio ad una gestione personale e non normativa dei rapporti.
In pratica, se l’impresa è piccola e ci si guarda in faccia, ci si conosce, magari si è anche cresciuti insieme, riteneva il legislatore del ’70 che non si potesse parlare di rapporti fra “padroni” e “operai”, ma quasi di un rapporto familiare, dove è anche giusto che, pur in assenza di “giustificati motivi”, se il datore di lavoro non si fida più del proprio lavoratore, allora non deve essere obbligato a tenerlo in azienda in forza di legge.
Del resto, voler avvalorare la tesi che la causa del nanismo della maggior parte delle imprese italiane sta nella paura di dover applicare, crescendo, regole troppo stringenti, è come sostenere che fa bene chi non paga le tasse a non pagarle, perchè altrimenti non si arriva a fine mese, o che è giusto pagare le bustarelle o offrire cozze e caffè ai pubblici amministratori per vincere un appalto o per far andare avanti una pratica, chè altrimenti con tutte le pastoie burocratiche non si arriverebbe mai a capo di niente.
Ma già, che ingenuo che sono!, è proprio quello che molti dicono, senza che nessuno si alzi per dirgli semplicemente e nei denti: ma andate a quel paese!

Del resto, l’articolo 18 prevede sì l’obbligo di reintegro, una volta che sia stato accertato che un licenziamento è avvenuto senza giusta causa, ma allo stesso tempo lascia libero il lavoratore di scegliere se chiudere la questione prima, in sede di tentativo di conciliazione, o addirittura dopo, accettando il risarcimento che gli è dovuto e non continuando più a lavorare per un datore di lavoro di cui, evidentemente, proprio lui, il lavoratore, non si può più fidare.
Ed è questo, quello che normalmente è accaduto. I casi di applicazione del reintegro coattivo del lavoratore sono poche centinaia, su decine di migliaia di cause di lavoro puntualmente instaurate (e spesso vinte) in Italia ogni anno.

Ma vediamo se è vera la seconda storia: ovvero se, con lo scudo dell’art. 18, si finisce per ottenere che le azinede accettino anche l’inaccettabile dai propri furbi dipendenti, che prima farebbero i beneamati cavoli loro, e poi, una volta scoperti e licenziati, si trincererebbero dietro la protezione normativa per riottenere il proprio posto di lavoro.
Succede? È possibile? I lavoratori sono tutti diabolici furbetti e i datori di lavoro tutti candidi agnellini, vittime del lupo rosso vestito da sindacalista?
In effetti abusi ce ne sono stati. Quasi ognuno di noi ne conosce qualcuno. Ma un ragionamento corretto su questi problemi non può partire che da una analisi statistica dei dati, e non dalla esperienza personale e singola di ognuno.
Da questa visuale, è innegabile che il mercato del lavoro italiano (ma a dire il vero tutto il nostro tessuto sociale) sia spesso frequentato da quelli che si potrebbero definire i “soliti furbetti”. Ed è quindi assai probabile che qualche abuso, non necessariamente pochi, delle tutele fornite dall’art. 18 sia stato compiuto. É storia, purtroppo, che anche i sindacati ne abbiano a volte approfittato ed è quindi possibile con qualche ragione sostenere che fosse anche opportuno pensare a qualche intervento normativo che, senza snaturare il contenuto dell’art. 18, potesse servire a limitare le possibilità di abusarne.

Ebbene, è proprio su questo aspetto che è utile a mio parere riflettere. A cosa servono le modifiche che pare si vogliano introdurre alla formulazione dell’art. 18 con la riforma Fornero?
In primo luogo, da quel che si può apprendere dai giornali, poichè ancora non c’è un testo normativo scritto e disponibile, si ricava che la riforma spacchetta quella che era la unitaria fattispecie dell’art. 18 “vecchia formula” in tre diverse fattispecie.
Una prima fattispecie, si potrebbe definire quella dei licenziamenti assolutamente illegittimi, ovvero quelli dovuti a cause sessuali, religiose, politiche o razziali. Ebbene, per queste situazioni pare che nulla cambi. La tutela dell’obbligo di reintegro rimane, anzi, viene rafforzata, in quanto questa previsione dovrebbe essere estesa a tutti i lavoratori, indipendentemente dalle dimensioni delle aziende in cui lavorano.
La seconda situazione contemplata dalla futura legge sarà quella dei licenziamenti dovuti a ragioni discilìplinari, per i quali dovrebbe essere compito del giudice stabilire se e in che misura il licenziamento sia immotivato e di conseguenza anche stabilire se reintegrare il lavoratore, oppure riconoscergli un “indennizzo” (attenzione a questa parola, perchè nel diritto le parole sono importanti, ma ci torneremo in seguito), che potrà andare dalle 15 alle 27 mensilità.
La terza fattispecie è quella dei licenziamenti dovuti a ragioni economiche, che tradotto in soldoni significa “quando all’impresa mantenere un determinato numero di lavoratori costa troppo”. Ebbene, in questo caso, il reintegro non sarà più contemplato, ma semplicemente il lavoratore licenziato per ragioni economiche potrebbe avere diritto ad un indennizzo, anch’esso commisurato in un massimo di 27 mensilità.

Il meccanismo funziona, sembrerebbe. Perchè allora tanto schiamazzo sul rischio di un “salto indietro” di trent’anni nei diritti dei lavoratori?
Ebbene, proverò a dare una risposta. In primo luogo, occorre ricordare che si sta parlando di licenziamenti illegittimi, cioè avvenuti senza che ven fosse ragione.
É lapalissiano che un licenziamento (provvedimento che deve essere per legge preso con atto motivato e comunicato al lavoratore in termini precisi) per motivi razziali, sessuali, politici o sindacali, sarebbe un abuso assoluto. Voglio vedere quanti improvvidi datori di lavoro comunicherebbero al proprio dipendente di licenziarlo perchè è di colore, perchè è gay o perchè è uno sporco comunista. Credo che nessuno sarebbe così sprovveduto. Quindi, la previsione della nullità assoluta di licenziamenti così motivati, e del conseguente obbligo di reintegro, rischia di essere poco più che una previsione di stile, così come meramente di stile è la specificazione che tale previsione si estenderebbbe, con la riforma, a tutti i lavoratori, anche a quelli delle piccole aziende, perchè così in realtà è già adesso.

Nel caso di licenziamenti dovuti a cause disciplinari o economiche, invece, la cosa si fa più seria.
In Italia esistono già specifiche discipline e procedure che regolano le possibilità di licenziare lavoratori in casi di crisi economica o a fronte di violazioni disciplinari degli stessi. Ma la riforma Fornero, apparentemente, si disinteressa di queste discipline, nelle pieghe delle quali forse davvero si nascondono le distorsioni o i refusi che rendono possibili gli abusi di quelli che abbiamo definito i soliti furbetti e che rimangono immutate.
Interviene invece a mutare la disciplina dell’articolo 18, prevedendo che, nei casi in cui un licenziamento motivato formalmente per ragioni economiche o disciplinari,  venga poi invece riconosciuto come fondato su “altre” ragioni, allora la reazione dell’ordinamento potrà essere una scelta affidata al giudice fra reintegro e indennizzo, nel caso in cui il licenziamento sia stato illegittimamente attribuito a ragioni disciplinari, oppure un semplice indennizzo, nel caso di quelli dovuti a ragioni economiche.
Delle due l’una: o alla fine non cambierà niente, perchè i giudici quando verificheranno che un licenziamento è avvenuto senza giusta causa, non potranno che stabilire il reintegro – anche in caso di licenziamento formalmente motivato con motivazioni economiche e disciplinari – perchè in realtà il licenziamento era dovuto al fatto che quel lavoratore o quei lavoratori rompevano le palle; oppure, nella stesura finale delle norme che il governo proporrà, si troverà scritto che, semplicemente scrivendo nel licenziamento che Tizio se ne deve andare perchè non ci sono soldi per tenerlo o perchè ruba,  sarà il datore del lavoro a determinare ab origine quale potrebbe essere l’esito di un giudizio che accerti la insussistenza, in realtà, di tali motivi.
Il giudice, in tali casi, non potrà far altro quindi che avallare il licenziamento, comminando un indennizzo. Ma per l’imprenditore sarà comunque un vantaggio, perchè almeno prima di licenziare gli sarà facile fare i conti e capire se gli conviene tenersi il lavoratore, oppure licenziare e pagare.

Inoltre, ricordate, dicevo che nel diritto le parole sono importanti. Nella previsione dell’attuale articolo 18, si parla di “risarcimento” riconosciuto al lavoratore che sia stato licenziato senza giustificato motivo.
Nelle conferenze stampa della Fornero e del Presidente Monti, invece, si sente parlare di “indennizzo”.
E che cambia – si potrebbe dire – sempre soldi sono, no?! No, non è proprio così.
Tecnicamente si parla di idnennizzo quando per poter esercitare un mio diritto (licenziare) vado a dare fastidio a qualcun altro, ed a quel punto è giusto che il fastidio sia in qualche modo ricompensato, con un semplice indennizzo.
Si parla di risarcimento, invece, quando abusando di un diritto, o agendo proprio illegittimamente, vado a ledere un diritto altrui (il diritto di lavorare). Ed a quel punto, non devo pagare solo il disturbo, ma reintegrare il danno che ho inflitto agendo illecitamente. E questo, nel linguaggio giuridico italiano, da alcuni secoli si chiama risarcimento.

Proviamo a fare un riassunto. L’art. 18 si applica ai licenziamenti senza giusta causa, senza definire quali essi fossero, ma lasciando l’incombenza al giudice alla luce dei fatti del singolo caso.
Esistono leggi che stabiliscono quando è giusto licenziare e si tratta in genere di ragioni economiche e disciplinari. Forse, quelle leggi sono troppe, scritte male, magari alcune anche da modificare ed è lì che si dovrebbe intervenire per eliminare o almeno ridurre i probabili e purtroppo noti abusi.
Invece no, decido di modificare l’articolo 18, che in realtà non è mai stato un problema, ma solo un simbolo.
Stabilisco allora che, se mi licenziano dicendomi che puzzo, allora ho il sacrosanto diritto di essere reintegrato (e ci mancherebbe altro!).
Se invece dicono che non si possono più permettere di pagarmi, ma poi si scopre che non è vero, o che mi sono rubato le merendine in mensa, e poi si scopre che non è vero, beh, dai, facciamo finta di niente, prenditi un po’ di soldi e vai a casa.
Ora comincio a capire qualcosa. Il problema non è l’articolo 18, il problema è tutto di immagine e comunicazione. Il lavoro? è un semplice fattore produttivo, riducibile ad un costo, e quindi è solo in base ad un calcolo economico che devo e posso decidere se mi conviene continuare a pagare un lavoratore, oppure licenziarlo, anche senza motivo, liquidargli un indennizzo e lasciarlo per strada.

Prima di iniziare questa riflessione non capivo. I giornali ripetevano che tutti, tranne la CGIL, applaudivano all’accordo raggiunto fra Governo e parti sociali per il futuro radioso del Paese.
Capivo ancora meno, poi, quando, alla ricerca di chiarimenti, mi sono imbattuto in due dichiarazioni, una del segretario nazionale dell’associazione funzionari di polizia, Enzo Letizia, e l’altra del capo dei sindacati dei bancari, tale Fabi. Questi segnalavano che”in piena recessione è evidente il rischio di una spaccatura sociale del Paese che può alimentare pericolose derive anche di natura eversiva. Con il solo indennizzo per il lavoratore licenziato ingiustamente passerebbe un messaggio assai negativo quello che con un pò di denaro si ha la libertà di togliere illegittimamente il futuro alle persone” (letizia) e che “gli imprenditori si sono ripresi quello che i lavoratori erano riusciti a conquistare: un principio di civiltà che è stato gettato nella spazzatura in nome dell’Europa e del Libero Mercato” (Fabi), entrambi preannunciando battaglia.
Ma allora, se due persone chiaramente non accusabili di simpatie vetero-comuniste (un bancario e uno sbirro) dicono le stesse cose di un Landini, mentre tutti ripetono che invece questo è il migliore degli accordi possibili, qualcosa non va? i conti non tornano?

Poi, come è giusto fare, ho provato a riflettere con la mia testa ed alla fine ho capito.
C’è in ballo la mia dignità, di cittadino prima ancora che di lavoratore; di Uomo, che non può essere ridotto a semplice “capitale umano”. Che è stufo di bersi la storiella che Cristo è morto di freddo.
É bastato raccogliere le idee, mettere insieme qualche dato e mettersi a pensare. Difficile, come operazione, è meglio lasciare questa incombenza ad altri. Ma se siamo arrivati in questa situazione nel nostro Paese è forse proprio colpa di questa tendenza a delegare ad altri la responsabilità dei problemi, addirittura il compito di pensare, e sarà forse ora di ricominciare a farlo da soli.

Avv. Francesco Cisternino


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