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La rinazionalizzazione della Difesa in Europa: intervista al Prof. Germano Dottori

Creato il 11 settembre 2012 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Maria Serra

La geopolitica mondiale ha subìto un netto cambiamento all’indomani dell’11 settembre, data che ha simbolicamente posto fine al periodo di transizione seguito al crollo del Muro di Berlino. La lotta al terrorismo internazionale, perseguita dagli Stati Uniti mediante la controversa dottrina della guerra preventiva, e gli avvenimenti che si sono susseguiti, hanno allentato le relazioni transatlantiche, mettendo in particolar modo a nudo l’incapacità dell’Unione Europea e dei suoi Paesi membri di delineare una politica di difesa e sicurezza indipendente da quell’Alleanza Atlantica che vive ancora oggi un profondo processo di revisione interna. Le guerre in Afghanistan, in Iraq e, per ultimo, in Libia hanno dunque sollevato profonde riflessioni non solo sulle capacità operative dell’Europa ma anche sulla sua abilità di giocare un ruolo preminente nei maggiori contesti di crisi regionali e mondiali. Di fronte al perdurare delle profonde divisioni interne e all’incapacità di attuare – magari attraverso un approccio funzionalista – una politica estera effettivamente comune, l’Europa rischia di rimanere ai margini delle maggiori sfide del XXI Secolo.

La rinazionalizzazione della Difesa in Europa: intervista al Prof. Germano Dottori
Ad 11 anni di distanza dall’11 settembre, Maria Serra ha parlato dei problemi della difesa europea con il Prof. Germano Dottori, docente di Studi Strategici presso la LUISS Guido Carli e titolare della cattedra di Sicurezza Internazionale presso l’Università Link-Campus University of Malta. Consulente tra il 2001 e il 2006 del Presidente della Commissione Affari Esteri del Senato della Repubblica, e consulente tra il 1996 e il 2006 presso la Camera dei Deputati ed il Senato della Repubblica in materia di affari esteri, difesa ed aspetti ordinamentali di sicurezza interna, il Prof. Dottori è membro del Comitato di Redazione di Limes-Rivista Italiana di Geopolitica e membro dell’Osservatorio Strategico di Nomisma. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni di saggi e volumi, tra cui “Afghanistan. Crisi regionale, problema locale” scritto con Amir Madani (2011); “Guerre umanitarie. La militarizzazione dei diritti umani” con il Gen. Carlo Jean (2012); “La NATO dopo l’11 settembre. Stati Uniti ed Europa nell’epoca del terrorismo globale” scritto con Massimo Amorosi (2004).

Non è semplice affrontare i temi della Sicurezza e della Difesa dopo l’11 settembre. Se il ruolo degli Stati Uniti è più facilmente identificabile – senza soffermarsi sull’operato delle singole Amministrazioni –, risulta più complesso tracciare un quadro dell’Europa, intesa innanzitutto come entità unita. Professore, ad 11 anni di distanza da quell’evento come crede che sia cambiata l’Europa di fronte alle sfide poste dai problemi della sicurezza globale?

Io non sono del tutto convinto che il ruolo svolto dagli Stati Uniti nel sistema di sicurezza internazionale sia così facilmente decodificato. In realtà, con l’emergere progressivo della “dottrina Obama”, si iniziano a notare cambiamenti profondi rispetto all’impianto degli ultimi due decenni. L’America non funge più da garante ultimo della stabilità politica ed economica globale, anche perché non ha tratto dalle proprie azioni militari degli ultimi dieci anni particolari vantaggi. Al contrario, delle iniziative statunitensi hanno beneficiato soprattutto i rivali strategici di Washington, come la Cina. In questo contesto, è cambiata anche la posizione dell’Europa. In un sistema in cui l’America agiva nella direzione della stabilizzazione e dell’occidentalizzazione del mondo, gli europei cercavano di rimanere rilevanti partecipando alle campagne intraprese dalla Casa Bianca: in Afghanistan ed in Iraq, ad esempio. Noi ci siamo andati esattamente per quel motivo. Ora, invece, Washington sembra volersi ritirare dalla zona euro-mediterranea, obbligando gli europei a colmare il vuoto che si è determinato. Il problema è che nel 2011 la risposta è consistita in una nuova rinazionalizzazione delle politiche estere e di sicurezza dei Paesi del nostro Continente. Son saltati fuori i misogalli e poi il vecchio pregiudizio antitedesco. Tale tendenza si riscontra anche sul terreno economico-finanziario. Senza la leadership statunitense, sono affiorate nuovamente le vecchie rivalità del passato. Sarà difficile arginarle.

I fatti internazionali collegati e succeduti all’11 settembre se da un lato hanno evidenziato un allentamento dei rapporti euro-atlantici, dall’altro hanno definitivamente mostrato l’incapacità degli Stati europei (già peraltro visibile nel corso degli anni Novanta durante il conflitto in Kosovo) di gestire gli interventi militari senza il supporto degli stessi Stati Uniti e, soprattutto, della NATO. Nonostante gli esperimenti in Macedonia e in Bosnia-Erzegovina, gli accordi Berlin plus del 2003 non sembrano abbiano realmente facilitato le capacità europee di gestione delle crisi; permangono piuttosto numerose questioni politiche irrisolte circa la divisione dei compiti e delle responsabilità, sia dal punto di vista geografico sia da quello funzionale, tra le due organizzazioni. Come crede si possa sviluppare un nuovo discorso sulla cooperazione con gli Stati Uniti e con l’Alleanza Atlantica?

Il vero problema è che l’Europa e l’Atlantico del Nord non sono più la priorità strategica fondamentale della politica statunitense. Tale posizione è adesso occupata dall’area pacifico-oceanica, dove l’America concentrerà il grosso dei propri sforzi futuri, specialmente se a novembre non vi sarà un cambio alla Casa Bianca, che invece converrebbe agli europei. Proprio perché l’Europa conta di meno nell’attuale calcolo americano, e forse perché preoccupano le sue ambizioni, a Washington si giudica ormai conveniente una politica di ridimensionamento della propria presenza sul nostro Continente. E’ infatti una scelta che fa emergere le contraddizioni del processo di integrazione europea, riproponendo gli spettri del passato: la paura del Quarto Reich, ad esempio, che solo la salda leadership statunitense in Europa prima permetteva di contenere. Siamo, credo, andati ormai ben oltre le vecchie problematiche.

Quanto pesa la fedeltà atlantica nell’impedire un pieno sviluppo della difesa europea, con specifico riferimento al settore degli approvvigionamenti dei sistemi d’arma? In particolare, il settore dell’aeronautica sembra indicare un’eterogeneità delle scelte nazionali: Italia e UK hanno seguito il progetto F-35, con l’Italia impegnata anche nell’Eurofighter; la Francia viaggia da sola con il Rafale; la Germania, invece, ha investito tutto sul progetto europeo Eurofighter. In questo contesto, quali sono le prospettive per realizzare un’interoperabilità effettiva delle forze europee, sia in ambito PCSD che in ambito NATO?

La mia impressione è che i progetti industriali-militari nei quali il ruolo più importante è svolto dalle imprese statunitensi siano destinati a fagocitare gli altri. E’ solo una questione di tempo. L’Eurofighter sta avendo una vita difficile sui mercati internazionali, mentre è probabile che, superate le difficoltà iniziali, il marketing aggressivo delle aziende statunitensi determinerà il successo dei progetti promossi dal Pentagono. Questi possono contare oltretutto sulla solidità delle commesse nazionali, che non fanno i conti con il rigore finanziario imposto all’Europa dalla Germania. Lo vediamo anche in Italia, dove si pretende che sia proprio la partecipazione al JSF a compensare la perdita di posti di lavoro verificatasi sulle linee del Typhoon. Quanto all’interoperabilità, è garantita dall’omogeneità dei requisiti emanati dalle Forze Armate dell’area occidentale, che si stanno progressivamente affermando come standard.

Dopo il conflitto in Afghanistan e, ancor di più, in Libia, numerosi analisti e generali (penso al Gen. Carlo Cabigiosu e al Gen. Leonardo Tricarico) hanno lamentato, oltre alle carenze operative della difesa europea, l’incapacità dell’UE di agire con un’unica voce. La decisione francese di intervenire nello scenario libico avrebbe compromesso l’ennesimo tentativo di costruire un’identità europea in materia di Difesa. Neanche il sistema diplomatico – di cui Catherine Ashton dovrebbe essere la massima espressione – riesce a trovare una risposta effettivamente condivisa e concreta alle attuali criticità del Grande Medio Oriente. Che effetti crede stiano avendo e possano avere le cosiddette “primavere arabe” – ma soprattutto la crisi siriana, le cui conseguenze geopolitiche regionali ed internazionali sono probabilmente per diversi aspetti ancora abbastanza imprevedibili – sul futuro della Difesa europea?

Non è possibile separare quanto sta accadendo nella sfera politico-strategica da quanto si sta verificando sul piano economico-finanziario. La politica contemporanea è un processo multidimensionale, da analizzare con metodo olistico, e non ricorrendo a compartimentazioni che rendono quanto accade poco leggibile. L’Europa è sotto pressione, perché negli Stati Uniti si desidera impedirne la trasformazione in un blocco antagonista, dotato di una divisa in grado di incrinare la centralità del dollaro nelle transazioni internazionali. L’attacco ai debiti sovrani, realizzato con il concorso delle tre maggiori agenzie di rating, è servito soprattutto a questo: porre l’euro sotto scacco e comunque ribadirne il carattere di divisa satellite del dollaro. La partita principale si svolge a quel livello. Se gli europei e soprattutto i tedeschi riusciranno a raccogliere la sfida ed evitare la frantumazione di Eurolandia, è possibile che si facciano passi avanti importanti sulla via dell’integrazione. Ed a quel punto assumerebbero anche maggior concretezza le politiche europee nei confronti del resto del mondo, incluse quelle che implicano il ricorso alla forza. Ci si sta provando, a quanto si dice. La mia impressione attuale è tuttavia che questo scenario non sia quello maggiormente probabile. Mi rincresce, naturalmente. La Germania si percepisce ormai parte di un G3 informale e persino a Berlino c’è chi comincia a manifestare insoddisfazione per l’Europa e nostalgia per una riedizione del Sonderweg guglielmino, ovviamente rivisitato in chiave geoeconomica. Non intendo ovviamente eludere così il nodo arabo-siriano, ma solo ridimensionarne la valenza: la mia impressione è che tra gli attori principali del dramma vi siano sauditi, qatarioti, egiziani, turchi, iraniani, israeliani, russi, cinesi ed americani. Tra gli europei, si vedono solo i francesi e gli inglesi, ma in posizione assai defilata, in qualche modo “al traino” degli Stati Uniti, che nell’area dispongono peraltro di interlocutori più efficaci. Mi pare poco concreta anche la posizione italiana, che è oltretutto declinata in modo differente da Palazzo Chigi e dalla Farnesina: il primo disponibile a riconoscere gli interessi dei russi in Siria, l’altra risolutamente schierata sulla linea del Dipartimento di Stato americano. Dobbiamo tener presente comunque un fatto: il XXI secolo si annuncia molto diverso dai due che lo hanno preceduto.

* Maria Serra è Dottoressa in Scienze Internazionali (Università di Siena)


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