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La rinnovata rivalità politica fra Iran e Turchia nel Medio Oriente in divenire

Creato il 07 ottobre 2015 da Bloglobal @bloglobal_opi

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di Alberto Gasparetto

Rivalità sul piano ideologico-politico e cooperazione nel settore energetico sono stati due fra i principali tratti caratterizzanti delle relazioni fra Iran e Turchia, almeno nell’ultimo trentennio. Ad un Iran proteso verso quelle aree del Medio Oriente abitate per lo più da popolazioni aderenti alla variante sciita della religione islamica si è contrapposta una Turchia più incline a mantenere l’alleanza storica con la NATO senza per questo recidere i rapporti con i gruppi sunniti e le minoranze turcofone della regione. Con l’avvento al potere ad Ankara del gruppo politico filo-islamico dell’AK Parti agli inizi dello scorso decennio, una visione geopolitica neo-ottomana (che puntava a stringere maggiormente i legami con il mondo islamico) ha informato la nuova strategia turca in Medio Oriente, inasprendo, sempre dal punto di vista ideologico-politico, quelle differenze con Teheran tuttora presenti. Il teatro iracheno è stato l’emblema della competizione geopolitica fra le due potenze regionali fin dalla guerra del 2003.

Nonostante le asperità strutturali, la storica intesa sul nucleare iraniano nel luglio di quest’anno è stata salutata con estremo favore dalle autorità turche che, come emerge dalle dichiarazioni ufficiali, hanno sottolineato i benefici che un tale accordo può generare nelle relazioni bilaterali con lo Stato persiano [1]. Effettivamente, dal punto di vista economico, con il progressivo alleggerimento delle sanzioni, ci si attende che il livello di interscambio commerciale, che tuttora si assesta a 10 miliardi di dollari, non faccia altro che aumentare fino a  triplicare [2]. Ma preme osservare che gli aspetti puramente economici della questione non sono sufficienti a confermare le percezioni che emergono dalle dichiarazioni ufficiali dei decisori turchi. Elementi di preoccupazione riguardano il nuovo status politico che l’Iran potrebbe conseguire nella regione. Se da un lato è utile notare che un siffatto accordo non modifica improvvisamente i rapporti fra Iran e mondo occidentale (Stati uniti in primis), dall’altro va registrato che diversi Paesi arabi (Arabia Saudita in testa) che nutrono svariati interessi nella regione hanno manifestato una certa apprensione. In altre parole, se il raggiungimento di questa importante intesa non implica che si sia già creato automaticamente un vero e proprio meccanismo di fiducia fra Teheran e Washington – anzi, occorre che nel tempo l’Iran dimostri di voler ottemperare a tutti gli obblighi contratti affinché si imponga un meccanismo di confidence-building che preluda ad una istituzionalizzazione dei rapporti – è lecito che i Paesi arabi così come la Turchia esibiscano un atteggiamento di inquietudine sul nuovo ruolo geopolitico che l’Iran può assumere nelle dispute regionali.

Non si può negare che, in effetti, l’intesa sul nucleare, dopo anni di stallo in cui da più parti l’Iran era stato descritto come la principale minaccia agli equilibri e alla sicurezza in Medio Oriente, rappresenti il viatico migliore di cui Teheran si può servire per uscire dall’isolamento internazionale che soffoca le possibilità di crescita della sua economia e per assumere uno status di potenza legittimata ad avere voce in capitolo sulle questioni più rilevanti nella regione; una situazione che può minare non solo la già precaria posizione di Israele, ma anche quella dell’Arabia Saudita e, in special modo, della Turchia. E’ un’ipotesi fortemente corroborata dall’escalation degli eventi degli ultimi mesi quella secondo cui il Gruppo dei 5+1 (i membri con potere di veto al Consiglio di Sicurezza, più la Germania), ed in particolar modo gli Stati Uniti, abbiano valutato come il raggiungimento dell’accordo sul nucleare fosse ormai una necessità impellente di fronte all’offensiva dello Stato Islamico: si era giunti ad un punto tale per cui non si poteva più tenere lontano dalla cooperazione su questo fronte un attore importante come l’Iran che conserva, peraltro, una forte influenza sui governi e, di riflesso, sulle politiche estere dei due principali Paesi vittime delle conquiste del Califfato, l’Iraq e la Siria.

In realtà, se conviene considerare l’avanzata dell’ISIS un fattore rilevante che ha condotto le potenze mondiali a trovare la formula per un accordo finale sul nucleare, giova precisare che proprio lo Stato Islamico rappresenta una questione su cui i punti di vista dell’Iran e della Turchia divergono fortemente. Com’è noto, mentre l’Iran spalleggia il governo di Damasco, a cui lo lega un’alleanza strategica di lunga data [3], la Turchia ha cominciato a sostenere i diversi gruppi di opposizione al regime già qualche mese dopo l’avvio della repressione da parte di Assad nel 2011, ospitandone alcuni (ad esempio l’Esercito libero siriano e il Consiglio nazionale siriano) anche sul proprio suolo e foraggiandone l’attività. Recentemente, mentre il Primo Ministro turco Ahmet Davutoğlu ha dichiarato che Ankara auspica la rimozione di Assad dal potere, il Presidente iraniano Rouhani ha invece ribadito che l’eventuale indebolimento di Assad sarebbe un errore gravissimo [4]. Le divergenze sulla questione siriana rispecchiano in maniera limpida la difformità di vedute fra gli Stati Uniti che finora hanno tentennato nel prendere una posizione netta sulla questione e la Russia, che ufficialmente sostiene il regime di Damasco per via dei forti interessi strategici e militari che nutre nel Paese.

E’ facile ipotizzare, pertanto, come gli sviluppi della questione siriana rappresentino la ragione di fondo per la quale Ankara teme, nell’ottica della propria posizione regionale, le conseguenze geopolitiche ingenerate dall’accordo sul nucleare [5]. Un accordo che aumenta la frustrazione turca sia perché un’intesa analoga, raggiunta con la partecipazione anche del Brasile nel maggio 2010, era stata rigettata dagli Stati Uniti, venendo così accantonata, sia in ragione della percezione di un ormai incombente isolamento (la Turchia è di fatto stata messa in secondo piano nelle trattative che hanno condotto all’accordo finale di luglio). Inoltre, una sorta di alleanza tattica ufficialmente in funzione anti-ISIS e pro-Assad è stata messa in piedi negli ultimi giorni da Putin che, col sostegno dell’Iran (con cui esistono comprovati buoni rapporti a tutti i livelli) e degli Hezbollah libanesi mira a proteggere i propri interessi in Siria e sul Mar Nero. La Turchia in questi anni è sempre stata restia ad intervenire contro Assad, poiché nel magma della guerra civile era fondamentale evitare di sobillare la perdurante resistenza dell’indipendentismo curdo e delle sue appendici armate [6]. Proprio allo scopo di contrastare il terrorismo curdo del PKK, la Turchia, con gli Accordi di Adana del 1998, aveva avviato una forte relazione con la Siria che ha portato i due Paesi ad un alto livello di integrazione e di intesa politica ed economica fino alla crisi del 2011.

Dopo anni di isolamento internazionale, l’avanzata dell’ISIS e le conseguenze della crisi siriana hanno di fatto rovesciato i fattori dell’equazione geopolitica mediorientale. L’Iran sembra capitalizzare al massimo gli effetti dell’accordo sul nucleare, mentre la Turchia ormai da tempo sperimenta il visibile fallimento del principio che aveva informato la sua politica estera durante quasi tutto lo scorso decennio, la zero-problems foreign policy with neighbors formulata da Davutoğlu, allora Ministro degli Esteri. Con la decisione di prendere l’iniziativa militare in Siria, la Russia si candida a ribadire la propria influenza in Medio Oriente, lanciando agli Stati Uniti la propria sfida a livello globale. Inoltre, Mosca lancia il proprio segnale di avvertimento proprio a Washington: la necessaria cooperazione russa nel teatro siriano impedisce di fatto agli americani di limitare efficacemente la politica russa in Ucraina [7].

A livello regionale, mentre è lecito attendersi che Teheran e Ankara continueranno a nutrire buone relazioni economiche, a livello politico ingaggeranno una notevole competizione tale per cui l’Iran non potrà che beneficiare della situazione in fieri per riemergere quale potenza regionale, mentre la Turchia di Erdoğan dovrà seriamente rivedere la propria linea di politica estera se non vuole sperperare quel minimo di consenso di cui ancora può godere nel mondo islamico dopo un decennio di fulgore sotto la guida dell’AK Parti.

* Alberto Gasparetto è OPI Contributor

[1] Erdoğan speaks with Iran’s Rouhani, welcomes nuclear deal, Today’s Zaman, 17 luglio 2015

[2] Cengiz Çandar, How Turkey really felles about the Iran deal, US News, 21 luglio 2015

[3] A. Ehteshami, R. Hinnebusch, Syria and Iran. Middle powers in a penetrated regional system, Routledge, London and New York, 1997

[4] Maurizio Molinari, Intesa sui negoziati di pace in Siria: Usa e Russia con i Paesi musulmani, La Stampa, 29 settembre 2015

[5] Semih Idiz, Turkey reluctantly welcomes Iran deal, Al Monitor, 9 giugno 2014

[6] J. Landis, The Syrian uprising of 2011: why the Assad regime is likely to survive to 2013, Middle East Policy, Vol. XIX, n.1, pp. 72-84.

[7] Cfr. l’interssante tesi di S. M. Patrick, United Nations, divided world: Obama, Putin and World order

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