Nell’ottobre del 2008, falliscono le tre maggiori banche del paese: travolte dalla crisi dei subprime, non riescono a ripagare i creditori stranieri e vengono nazionalizzate dal governo del conservatore Geir Harde. Come da prassi, il governo in bancarotta accetta gli aiuti del Fondo Monetario Internazionale e dell’Unione Europea per far fronte ai debiti: 3,5 miliardi di euro che intende chiedere agli islandesi con una manovra fiscale da 100 euro al mese a famiglia per 15 anni. Ma alla socializzazione del debito, l’Islanda risponde di no.
Quattordici settimane di manifestazioni portano alle dimissioni del governo, a nuove elezioni e a un referendum. Con il 93% dei voti, l’Islanda decide di Hordur Torfasonnon pagare i debiti contratti da banche private nei confronti di altri privati. «Quando è iniziata la crisi – racconta Torfason – sono andato davanti al Parlamento e ho detto alla gente che sarei stato lì tutti i giorni, a mezzogiorno. Credo che fosse il 17 ottobre del 2008. Chiedevamo al governo di dimettersi, ai vertici della Banca Nazionale di dimettersi, e ai vertici delle autorità di supervisione monetaria di dimettersi. Queste erano le nostre tre richieste: “Ci avete mentito, ci avete ingannato, noi non abbiamo più fiducia in voi”. Ecco perché è successo. Molta gente dice che è solo perché siamo un paese piccolo, ma io non credo: penso che sia una questione di strategia. Se inizi, vai avanti e non ti arrendi».
Lei, Torfason, è un esperto di economia o finanza? «No. Sono una persona molto semplice, su queste questioni. Ma non c’è bisogno di studiare economia per capire quando ti stanno fregando. Stavo vivendo in uno dei paesi più ricchi del mondo, ma dove stava questa ricchezza? Tutti stavano chiedendo denaro in prestito: questa non è ricchezza, è una catena».
La gente comune può occuparsi di finanza e di economia pur non avendone le competenze? «Non dobbiamo capire l’economia, siamo la società: noi assumiamo delle persone, li chiamiamo politici, li assumiamo perché abbiano a che fare con la gente della finanza, ma non per diventare i loro migliori amici, volare insieme su jet privati, far festa in quei bunga-bunga o Torfason in piazza come si chiamano». «Qui in Islanda siamo una miniatura, siamo solo 300.000: è molto facile vedere attraverso le cose. Secondo me – continua Torfason – quello che è successo è che ci sono poche persone che governano, che possiedono tutto, che hanno preso tutte le aziende; costruito, comprato, costruito. Ed è tutto sparito: loro hanno sistematicamente rapinato il paese. Cosa è rimasto? Noi, i cittadini islandesi, che dovremmo pagare i loro debiti. E’ come un ladro che ruba tutto e poi i manda pure il conto. Ma noi diciamo “no”. Molto semplice. “Voi, pagate. I ladri, devono pagare. E assumersi le loro responsabilità”. Il più delle volte sapevano di fare dei pessimi contratti: rischiavano con i nostri soldi, con le nostre vite. Correggetevi, gente della finanza. Perché c’è qualcosa di molto sbagliato. Tornate a studiare, guardate che cosa avete sbagliato, e correggetelo».