«Andavamo in curva una volta e ci andiamo ancora. La differenza è che adesso la squadra è nostra». David Miani è vicepresidente e amministratore delegato dell’US Ancona 1905, la prima società di calcio professionistica in Italia ad avere come proprietari i suoi tifosi. Siamo nel 2010. La storica Ancona fallisce e a un gruppo di supporter viene un’idea rivoluzionaria, almeno per l’Italia: mettersi insieme e gestire direttamente la propria squadra del cuore. Nasce così “Sosteniamo l’Ancona”, un’associazione di tifosi senza scopo di lucro che inizialmente deteneva il 2% e aveva due posti nel cda del nuovo club. «Per quattro anni abbiamo lavorato fianco a fianco dei dirigenti, riportando la squadra dall’Eccellenza alla Lega Pro», spiega Miani. Lo scorso giugno la svolta. Il patron Andrea Marinelli decide di cedere la società ai tifosi. Oggi l’Us Ancona il cui presidente onorario è il sindaco Fiorello Gramillano è una società gestita in modo sostenibile, con grande attenzione al settore giovanile e, ovviamente, alle richieste dei suoi sostenitori. «Abbiamo1100 socie decidiamo tutto insieme. Finché ci saremo noi non potrà arrivare nessuno da fuori, prendersi la società con scopi poco chiari e portarla poi al fallimento, come accade spesso nel calcio italiano». Quella dell’azionariato popolare (o più precisamente dei supporters trust)è una realtà consolidata in molti Paesi europei, se non addirittura la regola.«Il Regno Unito ha la tradizione più longeva e il maggior numero di associazioni, più di 180. Germania e Svezia sono il massimo per il coinvolgimento diretto dei tifosi nei processi decisionali dei club», spiega Ben Shave,responsabile per lo sviluppo di “Supporters Direct Europe”, un’organizzazione che assiste i tifosi decisi a formare un trust. «Aiutiamo solo le associazioni aperte, democratiche e no profit», continua Shave. «Oggi seguiamo oltre 300 trust in più di 20 Paesi europei». Nel calcio britannico il fenomeno è di portata generale. Quasi il 70% dei club nelle prime cinque categorie tra Inghilterra e Scozia ha in seno un supporters trust. Solo per fermarsi alla Premier League gli esempi più celebri sono Manchester United, Arsenal e Tottenham. Questi gruppi hanno iniettato quasi 30 milioni di euro solo attraverso le quote sociali e hanno salvato più di un club prossimo al fallimento, come accaduto con lo Swansea.
Nei primi anni Novanta in Spagna quasi tutti i club professionistici sono stati obbligati a diventare società sportive per azioni, finite in mano a moltissimi tifosi:l’esempio più celebre,il Barcellona,conta più di 170 mila soci.
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E l’Italia? In ritardo, ma sta arrivando. Dal 2010 a oggi il numero dei trust è cresciuto notevolmente. «Il tifoso non può essere assimilato a un cliente: non considera la propria squadra alla stregua di un prodotto commerciale e stringe un legame destinato a durare per sempre». Così la vede Diego Riva, il presidente di “Supporters in Campo”, organizzazione impegnata da anni nella diffusione in Italia di un modello partecipativo per la proprietà e la gestione delle società sportive. «L’interesse sta crescendo, ormai rappresentiamo più di venti associazioni di tifosi»,spiega. Il ritardo, secondo Riva, non è motivato da ostacoli normativi. «Certo, in alcuni Paesi europei ci sono leggi che regolano la partecipazione dei tifosi e strumenti che facilitano l’aggregazione, ma la principale differenza è il background sociale e culturale. C’è bisogno di un modo diverso di vedere il calcio, che dovrebbe essere espressione di una città e non un modo per fare business. La vera sfida è il radicamento della società in un territorio di riferimento, aggregando le forze economiche locali e coinvolgendo direttamente i tifosi in processi democratici partecipativi. Sono loro il vero capitale dei club».Gli esempi italiani si trovano per lo più nelle serie minori. Da Taranto a Lucca fino a Tortona, dove il trust “Noi Siamo il Derthona” è riuscito a sottoscrivere un contratto di licenza esclusiva per l’utilizzo del marchio Derthona F.B.C. 1908, club che milita in serie D. «Tra i nostri soci ci sono tutte le tipologie di tifoso, i ragazzi che aderiscono al movimento ultras come gli anziani che vanno in tribuna da una vita», racconta Andrea Freddo. «Il nostro obiettivo è ottenere una quota di partecipazione e puntare tutto sull’identità storica, culturale e sociale della nostra squadra e della nostra città. Purtroppo in Italia prevale il sospetto verso qualsiasi forma di associazionismo tra i tifosi. C’è un po’questa mentalità da padre padrone, secondo la quale chi mette i soldi deve decidere per conto proprio». Capita allora che talvolta, trovandosi chiusa la porta, i tifosi creino una nuova squadra a propria immagine e somiglianza. È il caso di Sulmona, dove dopo dieci anni complicati tra cessioni societarie, debiti e stipendi non pagati, i tifosi rompono con lo storico club cittadino e ne fondano uno nuovo, l’Asd Ovidiana,anche a costo di ripartire dalla Terza Categoria.«Siamo quasi tutti giovanissimi e soprattutto anarchici», spiega Oreste De Deo. «Non abbiamo uno statuto vero e proprio, ma ci troviamo tutti insieme per prendere le decisioni. Siamo un club popolare in tutti i sensi». Risultato? L’Ovidiana fa più spettatori del Pro Sulmona, che però gioca in serie D.
Ne è convinto Walter Campanile, presidente di My Roma, primo esempio di azionariato popolare nella Serie A italiana. «La partecipazione diretta dei tifosi può contribuire a una serie di servizi indotti capaci di generare introiti importanti. Nei nostri primi anni di attività in sinergia con la Roma, dopo la nascita nel 2009, abbiamo contribuito a creare delle iniziative, dalla nuova biglietteria alle audio descrizioni delle partite per i tifosi non vedenti. Abbiamo avviato una campagna di sensibilizzazione nei confronti delle giovanili,le cui gare fino a qualche anno fa richiamava-no pochissime persone». My Roma detiene un pacchetto di azioni che garantisce un posto alle assemblee degli azionisti del club. «Ma all’ultima non siamo neppure andati», spiega Campanile.«È inutile perdere tempo,non ci ascoltano. Qualcuno che sta dall’a ltra parte dell’oceano ha deciso di cambiare lo stemma della nostra squadra per motivi di merchandising senza nemmeno consultarci». E così, in attesa di una legge che non c’è,i club si arrabattano tra bilanci in rosso, fallimenti e ripartenze più o meno stentate. «Chi gestisce il calcio italiano non ha compreso le enormi potenzialità sprecate», ripetono in coro i protagonisti dei trust italiani. Nel frattempo l'innovazione è partita, dal basso. Nella speranza che se ne accorgano anche ai piani alti.
Articolo di Tommaso Magrini pubblicato dal settimanale Pagina 99