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La Russia fa muro in Siria per non essere scalzata dalla regione

Creato il 20 febbraio 2012 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
La Russia fa muro in Siria per non essere scalzata dalla regione

Il veto alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU relativamente alla crisi siriana ha scatenato feroci critiche nei confronti della Federazione russa, la quale si trova in una posizione molto delicata. Mentre da un lato cerca di porsi come mediatore credibile per far dialogare le componenti siriane, la diplomazia russa si trova in palese difficoltà, costretta a difendere i propri interessi in un’area di forte competizione geopolitica mentre è al contempo limitata dalla sua stessa incapacità di agire con tempismo.

 

La risoluzione: il veto

L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato il 14 febbraio una risoluzione con la quale si condannano le autorità siriane per la violazione dei diritti umani della propria popolazione. Al contempo, si chiede al presidente Bashar al-Assad di farsi da parte. Il contenuto di questa decisione (che non ha natura vincolante) non si discosta molto dal testo della bozza di risoluzione discussa in seno al Consiglio di Sicurezza pochi giorni prima e sulla quale Russia e Cina hanno posto il proprio veto. Tale proposta, appoggiata dalla Lega Araba, chiedeva il confinamento dell’esercito siriano nelle proprie caserme e prevedeva la cessione del potere da parte di al-Assad al suo vice, prima di nuove elezioni.

Le motivazioni ufficiali avanzate dalla rappresentanza russa all’ONU si basano sull’impossibilità di applicare nella realtà tali disposizioni che, nel caso di una loro implementazione, causerebbero la disgregazione del sistema, senza che vi sia sottomano un’alternativa credibile cui rivolgersi. Vi è, inoltre, un palese malcontento per il rifiuto occidentale di inserire nel testo della risoluzione gli emendamenti proposti dalla Russia, con i quali si chiedeva all’opposizione interna siriana di distanziarsi dai gruppi armati che ne fanno parte e di fermare gli attacchi contro le istituzioni statali. Mosca ha invitato le parti al dialogo, prospettando anche la possibilità di ripristinare una missione «stabilizzatrice» della Lega Araba sotto gli auspici delle Nazioni Unite. Nonostante il fermo rigetto da parte di al-Assad di quest’ultima ipotesi, il Ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov e Mikhail Fradkov, direttore dell’intelligence, si sono recati a Damasco pochi giorni fa allo scopo di convincere il presidente siriano ad intavolare trattative con gli oppositori e ad indire un referendum per una eventuale modifica della costituzione siriana. In cambio, il Cremlino si impegnerebbe a mantenere un fronte unito con la Cina in seno al Consiglio di Sicurezza, al fine di prevenire una condanna formale della Siria che potrebbe esprimersi in sanzioni, embargo ovvero intervento militare.

Considerazioni preliminari

L'accoglienza riservata da Damasco a Lavrov
Le reazioni occidentali al veto russo sono state particolarmente aspre e si sono generalmente concentrate su alcuni elementi ricorrenti. Al di là della rabbia dei “falchi” che pretendono a gran voce di destituire Bashar al-Assad e di instaurare nel paese “la democrazia”, ed al di là della legittima preoccupazione, da parte della comunità internazionale e delle maggiori istituzioni umanitarie, per l’aumento di vittime negli scontri, sono in molti a concentrare il proprio sdegno sull’esistenza di una presunta “solidarietà autocratica” che legherebbe i regimi russo e siriano, solidarietà in virtù della quale Mosca tollererebbe la repressione armata dell’opposizione siriana in nome della salvaguardia della sovranità territoriale. Vi è chi, invece, ha intravisto nell’opposizione russa una necessità politica di Putin, costretto a mostrare al proprio elettorato di non piegarsi agli Stati Uniti e di tentare di restaurare la perduta potenza globale. Altri ancora spiegano (e criticano) la lenta reazione del Cremlino alla questione siriana in termini economici, evidenziando gli interessi contrattuali soprattutto in materia di armamenti. Infine, vi è chi giudica il tentativo di mediazione russo come il disperato tentativo di mantenere l’unico alleato rimasto nel Medio Oriente, con la conseguente possibilità di gestire o almeno controllare l’Iran di Ahmadinejad. Riassumendo, in molte istanze analitiche ed accademiche si è dunque venuta a creare la convinzione per la quale, essendo la Siria l’ultima testa di ponte russa in Medio Oriente, ed essendo Putin (più di Medvedev) timoroso di risvegliare una “primavera araba” anche in patria, Mosca starebbe agendo a favore di al-Assad in base ad un comune autoritarismo dai risvolti economici.

Queste valutazioni, sebbene abbiano una base di verità fattuale, rimangono però superficiali. Per comprendere meglio la reazione russa è necessario fare un passo indietro, ai tempi della Guerra Fredda, quando l’URSS trovò nella Siria di Hafez al-Assad, padre dell’attuale presidente Bashar, un alleato leale. Tale vicinanza si rafforzò maggiormente dopo il 1973, a seguito dello scivolamento dell’Egitto nel campo statunitense. È vero che l’URSS rifornì la Siria per oltre quarant’anni di equipaggiamento, di armi e di addestratori, in cambio di una vicinanza costante e di una base navale. La Russia che emerse dalle spoglie dell’URSS, però, non poteva permettersi di protrarre la competizione geopolitica con gli Stati Uniti in Medio Oriente e smise di investirvi, pur mantenendo attivi i contratti sugli armamenti. Il volume d’affari di cui si sta parlando, però, non è poi così elevato: la Siria, infatti, costituisce

Sebastopoli (Ucraina) e Tartus (Siria): le due maggiori basi navali della Russia nel Mediterraneo
per la Russia solo il settimo mercato di riferimento, molto distante dai valori riportati dalle commissioni indiane e venezuelane. Tali contratti, inoltre, non sono molto vantaggiosi per una Russia che, per poter vendere ancora, ha dovuto rinunciare alla riscossione dei debiti miliardari accumulati dalla Siria dai tempi dell’Unione Sovietica. La base navale di Tartus, inoltre, si è ridotta negli anni a ricoprire un ruolo occasionale di rifornimento per i vascelli in transito nel Mediterraneo, considerata anche la probabile obsolescenza della struttura. Nel 2010 la russa ROSATOM, l’azienda statale per l’energia nucleare, aveva negoziato con l’omologa siriana un contratto per la costruzione di un impianto nucleare in Siria, il quale è stato però fermato subito dopo. Le connessioni tra le élite politiche, militari e diplomatiche di Federazione russa e Siria sono certamente buone e di lungo periodo, tuttavia non si può parlare di “solidarietà autocratica”, soprattutto quando si considera che gli stessi critici della posizione russa dimenticano che tra i più fieri oppositori di al-Assad vi sono i leader dell’Arabia Saudita e del Qatar, i cui sistemi politici difficilmente possono essere definiti “democratici”.

I fondamenti della decisione russa: quali conseguenze?

A ben vedere, questi elementi – gli interessi economici e l’amicizia storica – ricoprono un ruolo relativamente importante nel rifiuto russo di appoggiare la risoluzione contro la Siria. Si sono infatti perse di vista due ragioni fondamentali che informano il ragionamento russo, una tradizionale ed una più contemporanea. La prima consiste nel tradizionale rifiuto di indurre un cambio di regime dall’esterno, violando il principio di non-interferenza negli affari interni di uno Stato, la cui sovranità ed il cui territorio debbono rimanere integri. Al di là dell’appello in sede ONU al rispetto del diritto internazionale, è ovvio che tale argomento serve una più prosaica necessità di auto-protezione. È altresì ovvio, però, che la Russia si sente incaricata di limitare quanto più possibile un sistematico appoggio da parte degli Stati Uniti a qualsivoglia movimento d’opposizione e/o rivoluzionario negli scenari più disparati, a seconda delle necessità economiche e strategiche che Washington ha o ritiene di avere in un dato momento. I diplomatici russi hanno registrato un crescente appello da parte occidentale a motivazioni di carattere umanitario per giustificare un eventuale intervento armato e vogliono evitare fin dove possibile il coinvolgimento militare statunitense in aree particolarmente delicate, nelle quali l’intervento può portare al peggioramento della situazione. Questa considerazione si lega al secondo elemento che sottosta al recente veto russo, cioè l’analogia con la rivoluzione libica. In occasione di tale crisi Mosca assentì in sede ONU (con l’astensione) alla creazione di una no-fly zone in Libia, intesa come garanzia di protezione dei civili, ma abusata dalla NATO per poi giustificare il cambiamento di regime manu militari. Per quanto la Russia concordasse all’epoca con i suoi partner occidentali sulla necessità di intervenire per sedare la violenza crescente, non ha mai approvato l’alto numero di morti tra i civili che non avevano preso parte agli scontri, così come non ha affatto tratto soddisfazione da un repentino cambio di regime che non solo ha portato all’instaurazione di un governo provvisorio disorganizzato e disunito e che, tra l’altro, ha perso il controllo su gran parte dell’arsenale militare del regime; peggio ancora (almeno agli occhi del Cremlino), questo nuovo governo non sembra affatto essere secolare come il precedente, considerando le accuse che hanno investito alcuni nuovi leader libici di avere legami con al-Qaeda.

Ora, la Libia costituisce sicuramente per Mosca un interesse marginale, nel più ampio scacchiere mediterraneo. Ciononostante, il caso libico costituisce una “lezione” (imparata) molto importante sugli scenari che ci si possono

Il Bahrayn ospita la V Flotta degli Stati Uniti d'America
aspettare in caso di rivoluzione supportata da forze esterne. Dovesse essere attuato in Siria un piano simile a quello libico, non tenendo conto del fatto che al-Assad gode ancora di un vasto appoggio popolare e militare, si potrebbero registrare contraccolpi molto severi in tutta la regione ed una possibile escalation delle ostilità. Vi è infatti il rischio reale che la frattura settaria tra la maggior parte della popolazione siriana, sunnita, e la minoranza sciita si aggravi e che si trasmetta, anche con l’esercizio della forza, all’Iraq, al Libano ed all’Iran, trascinando per reazione l’Arabia Saudita ed il Qatar. Anche in caso di intervento di forze esterne, l’Iran sarebbe il primo tassello a muoversi, essendo l’unico alleato regionale della Siria, coinvolgendo immediatamente anche Israele. La situazione, come si può facilmente intuire, è potenzialmente esplosiva e Mosca, consapevole di non avere altri alleati in zona su cui contare, teme che queste crisi possano trasformarsi in “conflitti per procura”. Non è solo l’aperto conservatorismo in politica estera a muovere Mosca. Al Cremlino, infatti, è stato notato il modo in cui gli Stati Uniti stanno cercando con maggior insistenza di rafforzare la propria presenza ed il proprio margine di manovra nell’area, dopo aver perso un alleato fondamentale quale Mubarak. Il sostegno all’Arabia Saudita rimane palese, nonostante l’intervento nel tumultuoso Bahrayn, dove la V Flotta statunitense ha la sua base; lo stesso caso libico ha sottolineato precise mire petrolifere e la Russia non è sicuramente l’unico attore a percepire i grandi vantaggi per Washington di un intervento internazionale in Siria, che priverebbe l’Iran del suo unico appoggio regionale.

In sede ONU la Russia vuole accertarsi che il Consiglio di Sicurezza non appoggi in toto la politica statunitense, che è ritenuta pericolosamente controproducente, nel caso siriano. I diplomatici russi concordano sul fatto che, in caso di contenimento della violenza in Siria, un cambiamento ai vertici sarà comunque necessario. Tuttavia, Mosca cerca di ottenere una transizione pilotata, con la quale la sua influenza storica venga mantenuta. Allo stesso tempo, vuole evitare un possibile “contagio” di tensione religiosa interna all’Islam dal Medio Oriente al Caucaso del Nord, un’area già disastrosamente instabile. Al contempo, il Cremlino sta cercando di porsi come mediatore anche per non perdere rilevanza internazionale, dimostrandosi ancora in grado di esercitare e proiettare influenza, in un contesto dove i concorrenti geopolitici sono numerosi ed agguerriti. Tale approccio, tuttavia, è arrivato troppo in ritardo per poter avere successo in tempi brevi. Con un atteggiamento attendistra, la diplomazia russa ha sprecato mesi preziosi nella critica delle iniziative altrui senza produrre alternative che le ritagliassero un ruolo di primo piano. In tal modo la Russia si è alienata non solo il movimento siriano d’opposizione e la NATO, ma pure la Lega Araba. Mai come oggi il tempismo è fondamentale in politica internazionale, ed oggi la Russia si trova nella scomoda posizione di dover difendere quasi da sola e a tutti i costi al-Assad, pena l’essere scalzata dalla regione. A meno che non si riesca finalmente a trovare, con negoziazioni concertate più serie e prive dei soliti ultimatum, una soluzione rapida e pacifica, i costi (umani) e politici della crisi sono inevitabilmente destinati a lievitare.


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