Nel corso dei secoli il paese si è esteso, fino ad assumere una forma allungata. Attualmente il paese è tagliato in due parti che si snodano su due grossi costoni rocciosi attraversato da un canalone, ormai del tutto cementificato. Un primo ampliamento significativo, come si può osservare analizzando la Stampa di Pacichelli (sulla quale tornerò in seguito) si ebbe nel secolo XVII, quando dalla parete nord-est partendo dalla Porta del Vaglio, una delle quattro porte principali dell’abitato, si innesta un lungo braccio di case, formando quel quartiere che prenderà il nome di Casalicchio che comunicava con il distretto di Castrovillari. Quando sono state aperte le due strade rotabili, cioè via Roma e via S. M. Maddalena (la cosiddetta Via Nova) lo sviluppo ha preso queste direzioni. Infatti, gli altri allungamenti si sono avuti soltanto con la costruzione delle strade che ci collegano alla Statale. È come se si fossero allungati i due bracci superiori, lasciando del tutto inalterati quelli inferiori. A questo punto gli assi del paese si sono spostati in direzione soprattutto dell’altro versante del costone roccioso, e l’Acquanova è divenuta il nuovo centro del paese.
Il luogo più alto di Saracena si trovava su un costone roccioso, scelto un tempo per edificare un Torrione, a circa seicento metri dal livello del mare. Se facessimo partire una linea ideale tale da congiungere le due coste della Calabria, cioè dallo Ionio al Tirreno, potremmo verificare come Saracena si trovi esattamente nel punto medio di queste due estremità, vale a dire la distanza che divide il paese dai due mari in linea d’aria è praticamente simmetrica, come se in effetti il paese fosse stato un tempo edificato su un punto di snodo o di scalo per i mercanti che trasportavano le loro merci da una costa all’altra della Calabria, cioè dalla antica città di Sibari sino alle città tirreniche, l’attuale Scalea: «Le merci che affluivano a Sibari, o che ne provenivano, percorrevano poi, lungo i fondi delle valli e i corsi dei fiumi, alcune strade difficili ma brevi, poste nella strozzatura settentrionale della Calabria, le quali, con un viaggio di appena due giorni, collegavano trasversalmente, dal Mar Ionio al Tirreno, Sibari a Poseidonia, Lao, Scidros, Pandosia, Clampetia, Temesa» (Augusto Placanica, I caratteri originali, in La Calabria. Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi, Einaudi, Torino, 1985, p. 21).
Nelle chiare e limpide giornate di sole, dal punto più alto di osservazione addirittura si domina tutta la Piana di Sibari, si può vedere il Monte di Cassano, Capo Trionto, la punta più estrema a sud del Golfo di Taranto, e l’acrocoro della Sila. Se si vuole in effetti controllare ogni eventuale minaccia proveniente dalla direzione del Mare Ionio, la posizione è davvero invidiabile. Attualmente Saracena si distende lungo tutta la parte orientale della collina, tuttavia, come raccontano le cronache e la tradizione orale, il paese non si trovava nel luogo ove oggi lo vediamo. Un tempo, si narra, l’abitato era situato su uno sperone roccioso, posto alle spalle, dalla parte orientale dell’abitato attuale, un luogo che sino al momento noi indichiamo come «Civitavetere» o «Citavetere».
Molte circostanze lasciano pensare che il nome “Saracena” sia legato all’arrivo di nuclei di Saraceni, che sbarcati sulle coste calabre, intorno al IX e X secolo, hanno finito con il consolidare delle basi interne da cui partire per effettuare le loro razzie. La presenza di un sito chiamato Citavetere, distante qualche chilometro da quello attuale, ha indotto perciò a credere che un tempo esistesse un altro centro con un altro nome molto più antico di Saracena. Questo sito viene indicato dai cronachisti come Sestio. Così lo nomina Gabriele Barrio nel suo De Antiquitate et situ Calabriae. Trattando dei paesi che da Morano arrivano sulle sponde del Tirreno, lo storico calabrese proponeva questo interessante schema topografico, ripreso poi da altri cronachisti: «Quando sarai andato via da Summurano e ti sarai volto ad occidente, troverai Saracena (Saracenam oppidum invenis), una volta, come congetturo, detta Sestum, fondata dagli Enotri, come scrive Stefano, il quale dice: La città di Sesto degli Enotri lontana dal mare. Dista da Summurano quattromila passi; scorre nei pressi il fiume Garga, freddissimo, che si mescola al Sibari [...]. Dopo Saracena, a cinque miglia, vi è Altomonte, città antica, su un luogo alto, una volta detta Balbia. Ma si ignora se fu fondata dagli Ausoni o dagli Enotri [...]. Da Balbia, a cinque miglia di distanza, sorge Nineto, il volgo la chiama Donato, una volta detta Ninea, fondata dagli Enotri, come scrive Stefano. Ninea, dice, città degli Enotri lontana dal mare. In questo territorio nascono i fiumi Grondo e Acida, che si mescolano al fiume Isauro [...]. Non lontano da Donato c’è la piccola fortezza di Policastrello [...]. Di poi vi è Folono, quasi folea, cioè tana di fiere, tra i fiumi Rosa e Acida [...]. a quattro miglia da Folono sorge la cittadella di Agata, Artemisia, come credo, fondata, dice Stefano, dagli Enotri; gli abitanti sono Artemiati; dista dal mare ottomila passi; [indi Thyella, nel vicino discorre il fiume Gineto]». Riprendendo, quindi, Stefano Bizantino e partendo dal mar Tirreno, Barrio ha così fornito questa sequenza: 1) Thyella; 2) Artemisia; 3) Folono; 4) Ninea); 5) Balbia (Altomonte); 6) Sestio (Saracena) e Summurano, l’attuale Morano Calabro. Nell’ordine, il nostro paese risultava essere effettivamente il sesto paese per chi proveniva dal mar Tirreno.
Se diamo uno sguardo al sito di Citavetere possiamo ipotizzare che Sestio fosse edificata sulla dorsale occidentale di questo sperone roccioso, per avere una maggiore esposizione solare. È ragionevole supporre che se un tempo c’era un abitato nel luogo indicato come Citavetere, probabilmente si trovava accanto lo sperone, estendendosi poi in direzione nord-ovest.
L’abitato, sotto il quale scorreva il fiume Garga, si doveva presentare piuttosto aperto e per nulla protetto e difeso in caso di qualche incursione. Il sito, infatti, se lo si confronti con quello attuale, non appare inaccessibile, anzi è facilmente raggiungibile da ogni direzione. Vedremo se sono state proprie queste le ragioni che hanno spinto i nostri antichi abitanti ad abbandonare questo sito, che si presentava così insicuro, e a edificarne uno nuovo su un’altura più difendibile e meno esposto agli assalti improvvisi. Infatti, al di là di dove Sestio fosse precisamente ubicata, la sua sorte pare segnata dal destino condiviso malauguratamente da tante altre località che tra la fine del nono e l’inizio del decimo secolo videro la loro scomparsa.
È probabile che Sestio abbia seguito la sorte di tante città del Mezzogiorno, come racconta Galasso a proposito di alcune città campane, come Formia, Capua o Avellino. Quest’ultima, ad esempio, aveva la sua sede antica a qualche chilometro di distanza, «presso l’odierna Atripalda, in un luogo che è detto ancor oggi “la Civita”». Infatti, come spiega lo storico napoletano, «l’esistenza di una “civitas vetus” per antonomasia immediatamente accosto ad un’altra città che vien detta “nova”», dovuta al fatto che l’abitato viene spostato in una sede ritenuta più utile e opportuna (G. Galasso, Le città campane nell’alto medioevo, in Mezzogiorno medievale e moderno, Einaudi, Torino, 1975). Nel caso di Sestio, la sola differenza che possiamo marcare, rispetto alla sorte subita da queste altre città, consiste nel fatto che, dopo la sua distruzione, non è stata fondata una “Nova Sestio”, bensì un altro villaggio che ha preso un nome completamente diverso da quello originario. In effetti il nome che l’abitato nuovo assunse fu “La Saracina”, lasciando supporre che il suo toponimo sia legato a qualche insediamento Saraceno che proprio tra la fine del IX secolo e la metà del successivo hanno interessato queste zone della Calabria.
Analizziamo come le cronache antiche raccontano la distruzione di Sestio e l’edificazione del nuovo abitato. Partiamo anzitutto da un “manoscritto”, riportato nella Monografia storica del comune di Saracena di Vincenzo Forestieri, che descrive non solo l’origine dell’antico Palazzo baronale, ma fornisce anche dei cenni sull’origine del nostro paese. Forestieri afferma che questo manoscritto è stato «rinvenuto su di una lamia dello stesso castello» e contiene una descrizione minuziosa di tutti gli spazi e i locali di questo palazzo, nonché le varie case di feudatari che nel corso dei secoli ne sono venuti in possesso. La domanda che ci poniamo è se questo documento sia davvero originale e se la sua trascrizione sia stata alquanto fedele. Alla seconda domanda non credo che vi possano essere dubbi, perché Forestieri quando riporta i documenti storici nella sua monografia lo fa in modo piuttosto scrupoloso. Riguarda invece la prima questione notiamo che il documento riporta un solo errore, nel punto in cui dice che il principe Anton Sanseverino «verso il finire dell’anno mille ridusse in magnificente aspetto il Castello…»; in realtà, i principi di Bisignano divennero feudatari di Saracena nel 1382, quando, come riporta in un altro luogo la monografia di Forestieri, Margherita Sanguineto, ultima discendente di questa famiglia che aveva in dote il feudo di Saracena, sposò Viceslao Sanseverino, «e così il feudo cadde in potere dei Sanseverino».
Tuttavia, al di là di questo anacronismo, non ci sono elementi validi per affermare che il documento in sé sia falso; vediamo dunque come riporta le vicende della nostra storia: «Anno Domini MDCLXXII. Questo castello di antichissima costruzione aveva forma rotonda, munito con torri, vi erano feritoie, era ben ristretto ed aveva delle uscite sotterranee come si disse: fu detto con altro nome comunemente il Castello di Sestio perché difendeva la città situata parte ex adversa». Secondo questa fonte esisteva una «città situata parte ex adversa» e questo Castello aveva la funzione di difenderla; addirittura si fa cenno a «uscite sotterranee», a torri e a feritoie. La città “ex adversa” viene indicata dai repertori antichi come Sestio. Seguiamo adesso le vicende di Sestio. Il citato manoscritto, rinvenuto su lamia, riporta questa versione: «Venuto poi l’anno novecento dell’era cristiana la Città di Sestio, occupata dai Saraceni, fu presa dalli armati Costantinopolitani che servivano allo imperatore d’oriente, che si era fatto signore di molti luoghi della Calabria e rovinorno la città, gli abitanti che rimasero liberi da quell’assalto si rifugiarono a piedi dello stesso, e vi costruirono un piccolo paese che fu chiamato Saracina per onore della donna Saracina che aveva tenute le sorti della città». I fatti di cui si narra nel manoscritto risalgono allo scontro tra i saraceni e i bizantini. Quindi, Sestio venne distrutta, secondo questa versione, dai bizantini, e successivamente i superstiti, scampati al massacro, vanno a edificare le loro case in un altro sito, intorno all’antico castello, che in onore della donna che ha tenuto le sorti della città viene chiamato “La Saracina”.
Questa versione fu riportata quasi alla lettera e avvalorata da Padre Fiore, nel 1691, il quale scriveva: «Fu Sestio, come tutti gli altri luoghi della Calabria, sorpreso da’ Saraceni, e morì nell’anno novecento della Nascita di Cristo Nostro Signore, e fu degli stessi particolar sede, per la comodità dell’uno, e l’altro mare, e per la fortezza del sito, sino che venuto, non molto tempo dopo l’Esercito Imperiale di Costantinopoli, per l’ostinazione de’ medesimi, à non volersi rendere, distrusse affatto la Città…» (Della Calabria Illustrata).
Nel libro Calabria dimenticata, Nicola G. Marchese riporta una cronaca interessante. Questa cronaca ci viene tramandata da Ferdinando Ughello, in Italia Sacra del 1721, e viene attribuita a un certo Rogerio “Diacono e Canonico della chiesa Catacense di S. Maria Dei Genetricis”. La cronaca reca come data febbraio 1121, nel secondo anno del pontificato di Callisto II. Come scrive Marchese, «il cronista dopo aver descritto le incursioni dei Saraceni sulle coste Ioniche, passa a descrivere succintamente le devastazioni apportate sul versante Tirreno dove soprattutto hanno operato i Saraceni di Sicilia. Specifica che: “Hi sunt Episcopatus qui sub ipsa persecuzione desctructi fuere a parte maris Oceani, Episcopatus Vibonis, Taurinae, Nicoterae, Amanteae, Agelli, Scalae, & Sesti, quod modo Capacium vocatur, destructa fuit etiam S. Eufemia maximamque predam inde facientes, tutum Monasterium destruxerunt, usquae ad hodiernum diem vestigia ejus, exinde capta Sisania, quae Neocastrum nunc vocatur, totum destruxerunt, & vestigia ejus usque ad hodiernum diem apparent”» (Corsivo mio).
Narra ancora la cronaca che dopo l’occupazione bizantina della Calabria, si pose il problema di ricostruire le città distrutte dalle incursioni dei Saraceni: «Costantipoli misit, ut omnes Calabrorum civitates reaedificaret, mandans ne iam in maritimis, sed intutissimis locis easdem transmutaret». I saraceni, partendo dalla Sicilia, compiono questa incursione: assaltano la città di Vibo, poi passano a Taureana, che oggi è una frazione di Palmi (RC), e, come ci informa il Rolphs, si vedono ancora i resti di questa antica città; assaltano Nicotera, Amantea e Agelli (cioè Aiello, Agellum), poi passano a Scalea e da questa a Sesti. Quando i bizantini riuscirono a riconquistare questi paesi, molti di essi cambiarono di luogo perché erano molto indifesi.
A questo punto abbiamo due versioni di come si sono svolte le vicende di Sestio. La prima parla di una sua distruzione causata dall’esercito bizantino; la seconda di un’occupazione di Sestio compiuta dai Saraceni. Vediamo di valutare le implicazioni contenute tra la prima e la seconda versione dal punto di vista dell’attendibilità storica e cerchiamo di verificare quali conseguenze possiamo trarne. Prima dell’arrivo dei bizantini, il Brutium si trovava sotto il dominio dei Longobardi: la linea che dai dintorni di Rossano, attraverso il fiume Crati, raggiunge la costa in prossimità di Amantea divideva la zona di influenza grecofono-bizantina (a Sud) da quella latinofono e longobarda (a Nord). Sestio si trovava a Nord di questa linea. L’epoca a cui si fanno risalire la distruzione del paese e l’invasione dei saraceni, la zona era sotto l’influenza grecofono-bizantina.
Le incursioni saracene ebbero inizio dopo la conquista definitiva della Sicilia, cioè nella seconda metà del IX secolo. Quando venne inviata in Sicilia una grande flotta l’isola cadde in mano ai musulmani: «Avviata la conquista della Sicilia, agli occhi delle forze musulmane la prossima Calabria dovette apparire una testa di ponte o, più modestamente, un mero territorio di razzia» (Placanica, I caratteri originali, in La Calabria, cit., p. 37). L’invasione della Sicilia fu organizzata dalla dinastia aghlabide di Tangeri. La conquista dell’isola rappresentò una base navale per estendere il dominio nel Mediterraneo, e diedero il via alle invasioni dei Saraceni che iniziarono a devastare la Calabria. Molti paesi calabresi, privi di difese, sono presi d’assalto e saccheggiati. Intorno all’anno 871 i Saraceni cominciarono a intensificare le loro incursioni sulle coste calabre. La loro azione è soprattutto volta a consolidare alcuni presidi militari, come le fortezze di Amantea, Tropea, Squillace o Santa Severina, che servivano come base d’approdo dopo aver portato a termine le loro scorrerie sul territorio. È nell’ambito di questa opera di consolidamento di un sistema difensivo ed offensivo che possiamo inserire l’arrivo dei Saraceni a Sestio, come ricorda la cronaca citata. Quindi, possiamo datare la conquista di Sestio intorno al 875 circa. Il consolidamento di questi presidi faceva parte di un piano generale di conquista dell’intera regione. Attraverso una manovra a tenaglia, la Calabria veniva attaccata dai due litorali. Abbiamo visto che più che Sestio, i Saraceni erano interessati alle piazzeforti (il «castello ex adversa» come riporta l’anonimo manoscritto da cui si domina tutta la Piana di Sibari sino ai monti della Sila).
I Saraceni preferivano dunque consolidare la loro presenza fortificando alcuni presidi sulla costa e all’interno del territorio che servivano come basi per le loro incursioni. In seguito, non disponendo di risorse necessarie per assoggettare tutta la regione, come fecero in Sicilia, si limitarono al controllo delle coste da cui partivano per le loro scorrerie, depredando i luoghi abitati dell’interno. Le incursioni, come scrive Placanica, potevano talvolta durare a lungo, irraggiarsi nelle terre limitrofe. Questi predoni scendevano e risalivano le valli, occupando altri nuclei e villaggi, poi riprendevano il mare, «non senza essersi riforniti abbondantemente di acqua, la cui mancanza a bordo era allora – e sarebbe rimasta per secoli – la più concreta occasione per scendere spesso a terra, razziando a ogni occasione (Placanica, I caratteri originali, in La Calabria, cit., p. 38).
Non dobbiamo immaginare questi Saraceni come un gruppo coeso che agiva al comando di un emiro. Spesso erano delle vere e proprie bande di predoni che si muovevano in modo indipendente e che soltanto in casi eccezionali erano spinti a coalizzarsi tra loro per far fronte al nemico comune, cioè contro l’Impero d’Oriente. Dopo la conquista di Scalea, un altro manipolo si addentra verso l’interno, magari seguendo il corso del fiume Laos, sino ad arrivare nei pressi del territorio di Lungro, e di lì buttarsi nella “Magnanisìa”, scorgendo le prime abitazioni di Sestio.
Possiamo immaginare i “sestini” come gente che viveva di agricoltura e pastorizia. La terra che circonda Sestio è piena di corsi d’acqua per irrigare i campi. Non doveva essere gente dedita alle armi, non credo dunque che contro questi nuovi predoni ben armati e addestrati potevano opporre una valida resistenza. L’unica via di scampo era la fuga tra le montagne. I nativi, avvertiti da questa imminente catastrofe, che di lì a poco si sarebbe abbattuta sulle loro teste, non credo che siano rimasti inerti ad aspettare i nuovi invasori, spietati e pronti a uccidere e a ridurre in schiavitù chiunque fosse rimasto impigliato nella loro rete. Era abitudine infatti tenere rinchiusi nelle loro prigioni gli abitanti che erano riusciti a catturare per poi venderli come schiavi. Presi dal panico e terrorizzati dai racconti che si facevano sul conto di questi nemici “inumani”, possiamo congetture che i superstiti si siano rifugiati e dispersi tra le montagne, di cui soltanto loro conoscevano i segreti più reconditi. Voglio dire, se effettivamente esisteva un villaggio chiamato Sestio nel luogo oggi denominato Citavetere, se realmente questo villaggio è stato preso d’assalto da un piccolo esercito di Saraceni, intorno al 870 dell’Era cristiana, perché non possiamo immaginare che ci siano stati dei superstiti? Perché dobbiamo credere che tutti i suoi abitanti siano stati massacrati da questa incursione?
I Saraceni, più che all’abitato e agli abitanti, sono soprattutto interessati alla fortezza di Sestio, in cima, da cui non soltanto possono preparare le loro scorribande sui villaggi limitrofi, ma avere anche un controllo su tutta la Piana di Sibari. Per quale ragione avrebbero dovuto bruciare e distruggere le povere case di Sestio? L’abitato potrebbe essere rimasto lì, saccheggiato ma integro. Poteva servire comunque come base per ulteriori arrivi. Invece, possiamo immaginare che i Saraceni fossero interessati a consolidare la fortezza «ex adversa», magari rendendola più grande e meglio attrezzata. Questa fortezza viene inserita nel dispositivo di difesa e di offesa contro l’Impero d’Oriente. È intorno ad essa che, presumibilmente, si formano le prime casupole. Come viaggiavano questi Saraceni durante le loro incursioni? Non credo che portassero al seguito le loro famiglie, la rapidità delle loro azioni dipendeva dal fatto di non aver con sé nessun impedimento. Le donne con cui unirsi dovevano trovarle direttamente sul posto, strapparle ai loro affetti, ai loro cari, ridurle ad armenti. Nel giro di qualche anno, nascono dei figli, dall’identità ambigua: figli di padre Saraceno ma di madre Sestina. Saranno poi questi figli che si porteranno addosso il marchio della vergogna, della vergogna d’essere figli della violenza e dello stupro; figli marchiati a vita, emarginati, rifiutati, cresciuti in una fede senza nome, perché non sapranno mai da che parte pendere, che parte prendere. Li chiameremo i figli di sangue misto o, come volgarmente si dice, “bastardi”, o figli della colpa, marchiati a vita perché le loro madri non hanno avuto il coraggio di strozzarli nella culla.
I continui assalti dei Saraceni causavano disordini e perdite per l’intera regione, fino a che la corte di Bisanzio non decise di passare al contrattacco. L’imperatore allestì una spedizione militare allo scopo di cacciare l’invasore. In un primo tempo, mandarono lo stratega militare Stefano Massenzio, che non diede però buone prove militari. L’imperatore d’Oriente, Basilio I, dopo la sconfitta di S. Severina, decise nel 885 di sostituirlo con lo stratega Niceforo Foca, avo dell’imperatore omonimo che più tardi salì al trono di Costantinopoli. Il nuovo comandante in capo dell’esercito bizantino, deciso a riconquistare le terre perdute, cambiò tattica militare: anziché disperdere in tanti rivoli la forza dell’esercito, la concentra di volta di in volta su una piazzaforte saracena. Niceforo fece saltare il dispositivo offensivo dei saraceni, basato, come abbiamo detto, su delle fortezze da cui potevano compiere rapide incursioni. Tuttavia, per meglio assicurarsi la conquista e legare il territorio all’impero, lo stratego lasciò nelle varie città piccoli presidi, fondò vescovadi bizantini in diverse località e ripopolò alcune terre con migliaia di schiavi affrancati da Basilio I. Soprattutto il generale si preoccupò di rafforzare le difese del territorio dai saraceni, invitando le popolazioni a stabilirsi nei kastellion, borghi posti sulle alture più facilmente difendibili, grazie alla conformazione naturale del terreno, secondo il motto “Ascendant ad montes” (Si stabiliscano sui monti).
Le vicende storiche del nostro abitato si inseriscono perfettamente in questo quadro. Anzitutto, la conquista della Fortezza nella quale si erano stabiliti i saraceni, in secondo luogo l’abbandono dell’antico sito e la edificazione del nuovo paese su un’altura più difendibile. In terzo luogo, ma questa per ora è soltanto un’ipotesi, abbiamo l’arrivo di un nuova popolazione (gli ex schiavi) che si stabilisce nei siti riconquistati. Come prova di questa colonizzazione un indizio potrebbe essere l’origine di un clan molto esteso che da secoli vive nel rione Scarano, ossia i “rizziri”. Secondo la mia ipotesi, il nome di questo clan risulta da una storpiatura dialettale del termine “reggini” (abitanti di Reggio Calabria). A conforto della mia ipotesi, cito il Dizionario toponomastico e onomastico della Calabria di Gerhard Rolfh: «Riji, nome che gli italo-greci di Bova danno alla città di Reggio…». Infatti, nel nostro dialetto questo clan è anche chiamato “I Rižži”. Inoltre, questo rione, insieme alla Chiesa di Santa Maria di Gamio conservano evidenti tracce bizantine. Forestieri la definisce «il Tempio più antico in Saracena», «edificato nella parte inferiore del paese, che è pure la più antica ad essere fondata. Argomento di ciò sono le mura di quelle vecchie e diserte abitazioni circostante, indice e registro del tempo passato: la stessa chiesa con il suo primitivo rito greco, avendo essa seguito la sorte della Sede Diocesana sottoposta all’Esarca di Costantinopoli residente a Ravenna; e, per essere in sul principio ben ristretto il numero della popolazione, non vi potevano essere altre Chiese».
Altro dato importante è che questo rione prende il nome “Scarano” o “Scherano” per la presenza delle guardie in custodia del carcere o “Portello”. Questo rione dopo l’arrivo dei bizantini doveva essere quello più militarmente attrezzato. Che in questo luogo dovesse esserci un carcere lo testimonia un documento. Quando il feudatario Francesco Spinelli reclama i suoi privilegi, citando il Jus portolaniae, cioè la prestazione di mano d’opera pagata dalla “Università”, è scritto che l’Università era obbligata a pagare dodici persone «tanto per la custodia di detta Terra, tanto per la carcerazione degl’inquisiti e malviventi».
L’aspetto più interessante fu l’opera di fortificazione messa in atto dai bizantini contro gli eventuali assalti dei saraceni. Il nuovo abitato, infatti, si sviluppò sul modello del “Castrum bizantino”, ovvero un gruppo di case-torri, affiancate una all’altra in modo da formare una corona fortificata le cui mura esterne sono di fatto le pareti delle case. Tutt’ora si può notare dai pochi resti avanzati come le case incorporassero le mura di difesa, e ciò spiega anche perché il paese non si è mai esteso oltre le mura.
Questi Castrum erano edificati solitamente su alture, su colline, sulle antiche acropoli, sulle coste sfruttando i dislivelli come terrazze per elevare le abitazioni dal livello strada. Le costruzioni avevano un aspetto ermetico con poche aperture all’esterno, mentre l’interno era elegante e razionale illuminato spesso da piccoli cortili, ben curati. Le caratteristiche principale delle fortificazioni Bizantine furono la razionalità e l’orientamento a bussola, tutte le torri furono orientate sugli assi nord-sud oppure est-ovest con gli ingressi a seconda della conformazione del posto nei primi tempi, poi si standardizzò a ovest verso il tramonto lasciando i punti più bassi e attaccabili delle strutture verso est per dare al nemico tutto il calore del giorno; i locali avevano mediamente l’altezza dai quattro ai cinque metri ed internamente erano dotati di robusti rivestimenti in legno per rafforzare le mura esterne; i soffitti dei piani intermedi erano di legno mentre l’ultimo piano aveva il soffitto con volte a botte o a cupola; lo spessore dei muri variava da uno a tre metri; le forme delle costruzioni variavano nei stili Bizantini con schema quadrato, rettangolare, poligonale, circolare, a croce greca, a volte a botte, a cupola, a seconda dei mezzi e materiali disponibili.
Consultando una fonte qualsiasi, tutte fanno risalire il nostro toponimo all’arrivo dei Saraceni, e, in particolare, come vuole la leggenda, il toponimo ebbe origine da una Donna Saracina. Come abbiamo visto, nel manoscritto riportato nella Monografia di Forestieri si parla di una «donna Saracina che aveva tenute le sorti della città» e che in suo onore il nuovo abitato prese il nome. Questa «leggenda» è stata ripresa e riproposta da Padre Fiore ne’ Della Calabria illustrata (1691), nella quale si parla di “La Saracena” che ritiene «per impresa una donna ignuda, e scapigliata, qual si cuopre con un lenzuolo; alla quale impresa accoppiasi un’antica tradizione, appo l’Abitatori, che fosse questa Donna, la Regnante de’ Saraceni, sorpresa dall’Armi Imperiali dentro il letto, e rimasta morta nell’assalto». Anche Pacichelli nel suo Regno di Napoli in Prospettiva (1703), scrive: «E forse geroglifico dell’istoria della sua distruzione, e riedificazione, e l’impresa, che sino al presente conserva detta Terra d’una Donna ignuda, coverta in poche parti del corpo di una banda, e a quest’impresa sono uniformi alcune antiche medaglie, che nel suo Territorio si son trovate, che d’una parte hanno impresso questa Donna, e dall’altra alcune lettere greche, che la dimostrano per Donna Saracina».
Stemma di Saracena
Forestieri, autore della citata monografia di Saracena, corregge la versione di Padre Fiore, e scrive: «Senonchè avvi la tradizione dei nostri antenati, la quale sembra che abbia maggior fondamento; onde diciamo, che sorpresa nel letto la Regnante dei Saraceni, per sfuggire il furore degli armati imperiali, avvolta in un lenzuolo, si salvava con la fuga, e si ricoverava a piedi dell’antico Castello, che esisteva a mo’ di fortino, ove ora è Saracena. Qui formarono delle piccole abitazioni e quindi surse il paese, che venne nominato Saracena, nome che doveva ricordare quella donna Sovrana dei Saraceni, e perpetuare la memoria di quell’avvenimento».
Padre Francesco Russo, in Origini e prime vicende di Saracena, bollava severamente questa “leggenda” definendola senza mezzi termini come una “panzana”: «E ci sarebbe invece da domandare come abbiano fatto gli uomini di cultura del nostro secolo ad avvalorare delle panzane del genere, frutto della feconda fantasia del seicentesco P. Fiore! Oltre tutto, è semplicemente impensabile che una donna araba potesse essere sovrana di un paese, poi da essa chiamata Saracena». In ogni caso, al di là del fatto se sia plausibile che una fiera amazzone fosse a capo di questo popolo, è difficile credere che i bizantini, dopo aver sgominato questa banda di predoni, lasciassero alcuni superstiti tranquillamente vivere ai piedi del Torrione. Se, effettivamente, c’è stato uno scontro armato è probabile che i bizantini non facessero prigionieri.
Se come crede Padre Russo, la storia della Donna Saracina altro non è che il frutto della fantasia seicentesca di Padre Fiore, non si spiega come mai lo stemma è riportato alla base della colonnina di un Polittico, risalente alla prima metà del Cinquecento, trovandosi accanto a quello dei Principi di Sanseverino, che all’epoca erano i feudatari della nostra terra; inoltre, se prestiamo fede al manoscritto, datato 1672, la citata storia della donna saracina precede la Calabria illustrata di Fiore, anzi, non è da escludere, se effettuiamo un’analisi sinottica, che il manoscritto o quantomeno il suo anonimo autore, sia stata una fonte a cui Fiore ha attinto per scrivere notizie sul nostro paese. Infine, come più volte sostiene Forestieri, questa leggenda veniva tramandata oralmente dai nostri antenati. Se si tratta di un parto della fantasia, allora questa storiella non l’ha partorita l’immaginazione fervida di Padre Fiore, bensì essa appartiene alla nostra immaginazione popolare. Fiore, ma lo stesso discorso vale anche per un Pacichelli, era un erudito“scrupoloso” che si limitava a raccogliere ciò che era già stato scritto nelle cronache senza passarlo al vaglio della critica.
Si potrebbe anche pensare che sia stata inventata posteriormente una storiella per spiegare quello che Pacichelli definiva un “geroglifico”, cioè che a distanza di qualche secolo non riuscendo più a comprendere i significati di quell’immagine riportata nello stemma del Polittico, qualcuno abbia cominciato ad elaborare l’idea che quella donna fosse la Regnante dei Saraceni, sfuggita nella notte ai soldati di Costantinopoli. In ogni caso, anche se le cose fossero andate così, non si spiega perché accanto allo stemma della Casa dei Sanseverino si trovi proprio questo stemma del paese con quella immagine. Che quello sia lo stemma del paese lo rivela la posizione e la sua collocazione. Voglio dire se possiamo dubitare della leggenda raccontata e rigettarla completamente, tacciandola come parto della fantasia, resta comunque lì lo stemma a ricordarci qualcosa, anche se non sappiamo esattamente che cosa, cioè anche se non sappiamo cosa esattamente vuole dirci quell’immagine. In realtà, credo che quell’immagine di donna che fugge avvolta in un lenzuolo o coperta da un cencio con in mano un pugnale sia un’allegoria, e che come tutte le allegorie, essa non ha un referente reale, ma si tratta di una trasfigurazione della realtà. Il limite, dunque, consiste nel voler dare una veridicità storica a un fatto allegorico, a qualcosa che insomma è accaduto, ma non nei termini in cui viene narrato dalla tradizione popolare quando interpreta i significati di quell’immagine.
I miti, come le leggende, raccontano una storia segreta, anzi sono le porte “segrete” della storia che ci fanno penetrare nelle stanze dei suoi misteri irrisolti, e non è certo con gli strumenti tipici della storiografia che possiamo accostarci a questi “testi iconici” per svelarne i segreti. Perché non si tratta di vicende che lasciano le loro tracce nei documenti scritti, ma di vicende che lasciano le loro tracce in una memoria collettiva, una memoria però trasfigurata nei suoi aspetti e quindi irriconoscibile alla nostra vigile coscienza. La leggenda, lo stemma, l’emblema stanno lì, e non possiamo far finta che non ci siano. Certo possiamo credere che siano il prodotto di una fantasia, o di una mitopoiesi, ma di una fantasia che trasfigura la realtà, che la occulta, che la trasforma, che la rimuove, come avviene nei sogni quando deformano i nostri desideri inconsci per non renderli palesi alla coscienza. Non c’è dubbio che non possiamo dare credito a questa storia così come viene narrata! Nella notte arriva un esercito imperiale a snidare quel gruppo di saraceni annidati a Sestio e guidato da una donna. Costei viene sorpresa nel sonno e uccisa dai bizantini, secondo la versione di Padre Fiore; o riesce a fuggire con un pugno di seguaci e a rifugiarsi ai piedi del Castello, secondo la versione fornita dal manoscritto e avvalorata da Forestieri. In questo luogo difeso oppone un’ulteriore resistenza, alla fine dovrà soccombere sotto l’urto impetuoso degli imperiali, ma il suo coraggio e il suo valore saranno premiati con il ricordo perpetuo del paese che da quel momento prende il suo nome.
Anche a un superficiale vaglio della critica storica e del buon senso questa sequenza dei fatti non regge. Poniamo che questa armata imperiale sia giunta nel cuore della notte: gli abitanti dovevano avere un sonno pesante per non sentire nulla e lasciarsi sorprendere! La storia della fuga e della strenua resistenza avrebbe avuto senso se l’immagine raffigurasse una donna ben armata con indosso una armatura e uno scudo, mentre brandisce fieramente con il braccio alzato al cielo, in segno di lotta e di rivolta, una scintillante scimitarra. Ecco una bella immagine epica da tramandare per ricordare le gesta della “Fiera Saracina”! Ma l’immagine non riporta nulla di tutto ciò, anzi raffigura una donna impaurita e in fuga con in mano un piccolo pugnale e avvolta in un cencio: più che una Regnante appare una vittima inerme che fugge ai suoi persecutori che non sappiamo se sono i superstiti di Sestio, i bizantini o gli stessi saraceni. Un fatto è tuttavia certo: che questa donna fu uccisa e che la fondazione di un nuovo abitato si ebbe dopo questa uccisione. A questo punto è interessante domandarci: ma è realmente o verosimilmente potuta esistere una donna saracina? Oppure, come ricorda Padre Russo, la condizione delle donne arabe avrebbe impedita a un essere di sesso femminile di guidare un esercito di uomini? Ma questa donna era realmente una donna saracina, oppure era un epiteto, quasi un’ingiuria con la quale si indicava una donna che aveva rinnegato e tradito le sue origini per mettersi dalla parte di questi uomini spietati? Voglio dire per esser chiari che la donna raffigurata nello stemma più che una donna fiera che combatte i suoi nemici mi sembra una donna braccata che fugge ai suoi carnefici.
Dal momento che disponiamo di elementi scarsi, partiamo allora da quei pochi ma certi. Anzitutto ragioniamo sul toponimo: “Saracena”. “La Saracina”, “Saracina”, “La Saracena”, “Saracena”. È un toponimo piuttosto oscillante, non che cambia nome più volte, ma è un toponimo che per secoli non ha avuto trovato una sua stabilità. È sufficiente consultare le varie fonti scritte per rendersi conto di ciò. Antonio Salmena, lo storico moranese dell’Ottocento, afferma di aver letto «che assai prima del 1395 quella terra si chiamava Saracina»; anche nella Cosmographica di Munster (1550) troviamo sorprendentemente citato il nome Saracina; Marafioti la denominava “La Saracena” (Cronache et antichità della Calabria, 1601) allo stesso modo fa Padre Fiore. Nel libro di D. Francesco Cassiano de Silva, Dal Regno di Napoli anatomizzato (1713), in cui è riportato in tondo l’immagine del paese, troviamo di nuovo La Saracina; l’abate Pacichelli torna a chiamarla La Saracena. Dunque, talvolta compare l’articolo prima del nome altre volte scompare, a volte viene usata l’espressione dialettale (Saracina) altre volte quella italianizzata (Saracena). Vediamo di capirci qualcosa in questa continua oscillazione partendo proprio dal toponimo più antico: “La Saracina”. Non si è finora, a quanto mi risulta, posto mente alla singolarità di questo toponimo. In lingua come in dialetto, un toponimo preceduto da un articolo o da una preposizione articolata indica sempre un luogo preciso, individuabile localmente. Quando, invece, si vuole indicare un luogo “generico” si usa la preposizione semplice. Diciamo: “Ci incontriamo a Morano, a Firmo, a Roma o a Milano”; invece quando vogliamo indicare un luogo ben circoscritto, diciamo: “Ci vediamo al bivio di, alla Porta nuova, allo Scarano, alla Caserma vecchia, ecc.”. Quando usiamo la prima espressione non vogliamo indicare un punto preciso ben localizzato mentalmente, come accade, invece, nel secondo caso. Chiunque voglio dire capisce la differenza tra “ci vediamo a Zoccalia” (una piccola frazione di Saracena) e “ci vediamo alla Porta Nuova”: nel primo caso stiamo dando un indicazione generica, nel secondo caso stiamo indicando un luogo circostanziato. È la differenza che passa tra una località generica e un luogo specifico.
Se un tempo si diceva “Alla Saracina” forse allora non indicava una località generica, bensì un punto ben preciso e stabilito. Soltanto in un secondo tempo quando ha denominato l’intero abitato ha indicato una località generica. Se le cose stessero in questo modo allora ci dovremmo porre una serie di domande: perché c’era un luogo circoscritto denominato in quel modo? Dov’era questo luogo? Quando e perché a un certo punto si è smesso di designare quel luogo particolare e si è cominciato a designare l’intero abitato? Per far meglio comprendere la questione che mi sto ponendo, è come se il toponimo “Scarano” a un certo punto della storia smettesse di indicare una contrada e cominciasse a indicare l’intero paese. Se così fosse, ognuno si sarebbe posto il compito di rispondere come è accaduto questa trasposizione. Nel nostro caso, invece, il problema non si pone perché non esiste nessun luogo chiamato “La Saracina” che indicasse una località particolare. Tuttavia, l’articolo davanti al nome, a mio parere, tradisce la sua origine identitaria, mettendo in atto, allo stesso tempo, un singolare processo di oblio e di rimozione.Anche la scomparsa dell’articolo e il cambiamento di vocale da “i” a “e”, che ha prodotto nel corso dei secoli quella continua oscillazione toponomastica, cioè da “La Saracina” a “Saracena” può rivelarci qualche traccia del suo antico trascorso. Nel momento in cui si prese a dire “La Saracina” per indicare l’intero abitato, al principio poteva, almeno per gli abitanti del tempo, generare ancora confusione tra il luogo particolare e quello generico, per cui si doveva iniziare a differenziare tra “alla Saracina” (indicante il luogo particolare) e “a Saracina” (per indicare l’intero abitato). L’eliminazione dell’articolo davanti al nome e l’uso della preposizione semplice davanti a un complemento di stato “in” o di stato “a” luogo – “Andiamo a Saracina” – nel nostro dialetto foneticamente mal s’accorderebbe, avrebbe comportato una stonatura, tant’è che l’espressione richiederebbe di nuovo la preposizione articolata – “Andiamo alla Saracina” –, generando quindi di nuovo quella sovrapposizione di luoghi. Infatti, se si fa attenzione, i saracenari usano più il termine “paese” (“ci vediamo al paese”) che non il nome proprio del paese, credo proprio per evitare una difficoltà fonetica, perché raramente quando designiamo il paese lo chiamiamo “Saracena”. Quando siamo indotti dal contesto a farlo in dialetto ricorre ancora il termine “Saracina” (Quannu è bona l’acqua da’ Saracina).
Nell’ipotesi che sto tracciando, l’espressione “Alla Saracina” un tempo indicava un luogo particolare e soltanto in un secondo tempo ha preso a designare l’intero abitato. Ora il termine “saracina” può avere una duplice funzione: come sostantivo o come aggettivo. Inteso nel primo senso dovrebbe indicare una donna appartenente a quel popolo, come si direbbe la “Romana” o la “Napoletana”, inteso come aggettivo dovrebbe essere inteso come apposizione, una “banda saracina” o “una torre saracina”. Ma nel nostro dialetto i termini che esprimono un’appartenenza (a un popolo, a una persona o a una famiglia) hanno sempre una valenza concreta, ben precisa e identificabile, cioè l’aggettivo in questione verrebbe trasformato in un complemento di specificazione o di denominazione. Nel nostro caso, gli esempi citati si direbbero: “na banda i’ saracini” o “a turra (d)i’ saracini”, così come si dice “a turra (d)i’ Cornettu”, “a turra (d)i’ Tramonti”, ecc.; e se fosse declinata al femminile si direbbe “a turra da’ saracina”. Quando usiamo l’aggettivo dopo il sostantivo non lo facciamo mai per esprimere un senso di appartenenza, ma per sottolineare una scansione temporale (A via nova, a porta nova, a caserma vecchia) o un termine di paragone (il ponte grande). In altri termini, nel nostro dialetto i nomi concreti non esprimono mai una valenza aggettivante, ma sempre una valenza sostantivante. Ad esempio, non si direbbe mai “la casa moranese” bensì “la casa della moranese”.
I termini che designano un senso di appartenenza non vengono mai usati come aggettivi ma sempre come sostantivi. Quindi, se la dicitura “La Saracina” indicava un luogo particolare e non aveva né una funzione aggettivante né esprimeva un senso di appartenenza di un oggetto (una casa, una torre, ecc.), allora ci rimanda effettivamente a una donna, e quindi a un episodio concreto.
Vediamo ora in che modo e quando un luogo assume una denominazione con una propria sua identità ben specifica. Tra l’identità del luogo e il suo nome deve esserci una correlazione: i toponimi sono come un codice di riconoscimento per gli autoctoni; a una persona che nulla sa di un abitato darle un’indicazione particolare non serve a nulla. I nomi dei luoghi da ognuno di noi vengono appresi sin dalla nascita, succhiati col latte materno, perciò ogni nome ci dice qualcosa. I nomi dei luoghi, quando non sono dati arbitrariamente, vengono costruiti per somiglianza (come metafore) o per continuità (come metonimie). Di un luogo si prende in considerazione l’aspetto più saliente o più evidente, quello che per un motivo o per un altro si stacca da tutto il resto, e, attraverso un processo il più delle volte metonimico lo si attribuisce a tutto il resto, creando un rapporto di dipendenza. Se, infatti, poniamo mente ai nostri toponimi possiamo costatare come l’estrapolazioni di un qualche particolare più significativo o più predominante vada poi a designare un’intera zona.
Nella Monografia storica di Forestieri sono riportati i nomi antichi delle contrade di Saracena. Come spiega lo stesso autore, «al presente», cioè al momento in cui egli scrive, intorno al 1870, molte di esse «non corrispondono più agli antichi». Tuttavia, egli non riferisce i nomi di tutte le contrade, ma soltanto quelle principali: «La Petrastria o Petra delli Monaci, lo Palazzo, la Porta delli Pagani, la Vallina, la Carbonara, la Porta delli ferrari, Santo Nicola, li Pagani, il Portello o Scarano, la Spina Santa, Santo Nicola delle campane (le armi)». Risulta piuttosto difficile riuscire a individuare a quali luoghi del paese corrispondano, allo stato attuale, i nomi di queste contrade. Se facciamo eccezione per lo Scarano e per le Armi, per tutto il resto si possono fare soltanto delle congetture. L’unica ipotesi che possiamo fare è che c’è contiguità tra la Porta e la contrada, ossia che, ad esempio, la Porta e la contrada delli Pagani prendessero lo stesso nome. Tuttavia, è interessante confrontare i nomi di queste contrade con ciò che lo stesso Forestieri riporta in un’altra pagina della Monografia. In questo luogo siamo agli inizi della descrizione del Paese, e Forestieri sta citando i nomi delle quattro porte attraverso le quali si accedeva nell’abitato: «Porta del Vaglio, che trovasi al cominciare del paese per chi vi entra dal Casalicchio; Porta S. Pietro, situata a Sud-Ovest congiunta a una Cappella dello stesso nome […]; Porta Nuova posta alla parte inferiore del paese per la via che conduce al Convento dei PP. Cappucini; e Porta dello Scarano o Scherano, detta pure Porta delli Ferrari e delli Pagani, situata a Nord e quasi dietro la Chiesa parrocchiale di S. Maria di Gamio». Se poniamo attenzione al fatto che a tutt’oggi la Portanova, lo Scarano, il Vaglio e Santo Pietro sono ancora considerati i quattro rioni principali del paese, risalta agli occhi una qualche incongruenza tra i nomi antichi citati delle contrade, i nomi delle Porte e quelli ancora in uso delle contrade. Nel primo elenco riportato i nomi delle contrade che prendono la denominazione delle Porte sono tre (lo Scarano, Li Pagani, e li Ferrari) e manca il quarto (la contrada e la Porta del Vaglio, anche se verosimilmente potrebbe essere associato al nome della Vallina).
Invece, tra i nomi antichi delle contrade sono assenti proprio quelli della Portanova e di Santo Pietro. Che queste due contrade fossero conosciute già con questo nome da parecchi secoli, è testimoniato dallo stesso Forestieri quando cita un documento, datato 1629, riguardante le fontane pubbliche del paese: «Per le spese della fontana alla Portanova…». Invece, in un altro documento, redatto nell’anno 1655 dai nostri concittadini, riguardante l’elenco delle «Cappelle urbane», viene riportato questo dato: «S. Pietro edificata dall’Università alle mura della Terra senza campane e campanile». Se, dunque, entrambi i rioni erano già conosciuti nel Seicento come Portanova e Porta S. Pietro, allora perché non compaiono nell’elenco dei nomi antichi? Ad ulteriore conferma che questi fossero i nomi dei due rioni, citiamo quest’altro brano di Forestieri, in cui ci parla del percorso che la processione della Benedizione delle biade nel giorno dell’Ascensione compiva: «Per antica usanza nel giorno dell’Ascensione i due Cleri si riunivano alla Porta del Vaglio, e passando per l’Acquanova, e scendendo per la stradetta dei giardini di Santo Pietro, per la Porta S. Pietro, rientrando nell’abitato, scendevano alla Portanova… di là si andava con la processione alla Porta dello Scarano…». Dunque, anche in questo caso quando Forestieri deve scrivere i nomi delle quattro porte che questa processione «per antica usanza» doveva attraversare, cita quelli in uso. Insomma, mi sembra del tutto evidente che Forestieri citando «i nomi antichi» delle contrade del paese si sta rifacendo a una tradizione assai più remota, risalente quantomeno a molto prima del Seicento, altrimenti sarebbe strano che la nostra fonte più attendibile nel riportare i nomi antichi dimenticasse proprio quello di Santo Pietro e Portanova. A proposito di quest’ultima, come spiega il Capasso, Nova può significare due cose: o perché da poco aperta o perché rifatta. Se si trattasse di una porta aperta in un secondo tempo, allora dovremmo supporre che prima si trovasse in un altro luogo; il che vorrebbe dire che anche la cinta muraria era spostata leggermente più indietro. Il che non è plausibile se osserviamo la stampa di Pacichelli, in quanto essa non presenta nessuna cesura. È più verosimile congetturare che “Nova” sta per rifatta, il che metterebbe a posto un paio di incongruenze: in primo luogo è che veniva denominata con un altro nome (Porta dei ferrai o Porta dei Pagani?); in secondo luogo, spiegherebbe l’assenza dall’elenco delle contrade. Per quanto riguarda invece lo Scarano, quando Forestieri fa l’elenco delle Porte, afferma che quella dello Scarano viene anche detta “delli Ferrari” o “delli Pagani”, dimenticando che nell’elenco delle contrade, questi due nomi designavano invece due diverse contrade. Inoltre, dettaglio non trascurabile, Forestieri quando scrive della Porta delli Ferrari nell’elenco delle contrade lo riporta minuscolo, come se si trattasse di maestri ferrai, un luogo in cui erano concentrati soprattutto fabbri, quando invece lo designa come altro nome con cui viene indicato la Porta dello Scarano, lo scrive maiuscolo, come se si trattasse di una famiglia o di un casato.
Per quanto riguarda il rione Santo Pietro è chiaro che lo si comincia a denominare così da quando, addossata alle mura, viene edificata questa cappella. Il dato, dunque, più rilevante, è capire come si chiamava questo rione prima della edificazione della cappella e a quale delle quattro porte corrispondeva. Nell’elenco delle Cappelle entro l’abitato, citato e compilato nel 1655, non viene indicata nessuna data della sua costruzione, però sono presenti un paio di elementi significativi. In primo luogo, si fa la distinzione tra le Cappelle fatte edificare dall’Università, ossia dal “Comune”, e quelle, invece, fatte erigere da «privati» o da «pubbliche elemosine»; ebbene, delle nove Cappelle costruite, l’Università viene citata soltanto quando si fa riferimento alla Cappella di San Pietro, cioè l’unica Cappella finanziata con i soldi dell’Università è questa, tutte le altre sono state fatte edificare o da famiglie o da elemosine; altro dato: delle Cappelle costruite da almeno sessant’anni dalla data di compilazione dell’elenco (1655) viene indicato con precisione l’anno. Quindi, se della Cappella di San Pietro è omessa la data vuol dire che essa è stata edificata prima del 1595.
A questo punto possiamo porci un paio di questioni: perché troviamo il nome dell’Università legato a questa Cappella? Se dalla costruzione di questa Cappella rispetto all’anno in cui Forestieri scrive la sua monografia (1870) sono trascorsi almeno trecento anni come mai non ne troviamo tracce nell’elenco dei nomi antiche delle contrade? È evidente che da quando è stata costruita la Cappella di San Pietro, il Rione e la Porta ad essa collegata hanno cominciato a essere nominati con questo nome: allora, quale nome di Rione e di Porta il nome San Pietro vanno a sostituire e di conseguenza a cancellare nella memoria collettiva dei suoi abitanti? Se l’abbinamento Porta/Rione rimane un cardine, per cui, ad esempio, il nome Scarano indica tanto il rione che l’accesso dentro le mura, e così per altri, allora nell’elenco dei nomi antichi delle contrade l’unico che può corrispondere è “Porta dei Pagani” e il Rione de’ “Li Pagani”. In altri termini, Porta Santo Pietro con l’annesso rione va a sostituire il nome “Porta dei pagani” e il suo rione. Ora questo luogo del paese è esposto sul lato nord-ovest, quasi sotto l’antico Torrione. Il manoscritto del 1672, riportato da Forestieri, scriveva che «gli abitanti che rimasero liberi da quell’assalto si rifugiarono a piedi dello stesso, e vi costruirono un piccolo paese…».
In realtà, secondo l’ipotesi che sto inseguendo, ad abitare in questi luoghi furono il manipolo di saraceni e i loro discendenti, nati dalle donne locali. Poi, dopo che questa banda di saraceni fu sterminata dai bizantini, restarono solo le donne con i loro “bastardi”. A condurci a questa ipotesi è proprio il termine “pagano”: come è noto, dopo l’affermazione del Cristianesimo nell’impero romano il Paganesimo cominciò a decadere, ma i seguaci rimasti si riunirono nelle campagne, lontano dalla vita cittadina, in villaggi chiamati Pagus da cui prese nome la stessa religione. I pagani erano, dunque, in origine, le persone che abitavano i “pagus”. Il termine assunse subito una connotazione dispregiativa, divenendo ben presto un insulto indicante gente rozza e ignorante. Con l’avvento del Cristianesimo in qualità di religione di Stato, il termine iniziò ad essere utilizzato dai cristiani per indicare tutti coloro che rifiutavano di convertirsi, accomunandoli agli abitanti dei paghi, che, essendo isolati, tendevano a mantenere vive le loro tradizioni religiose originali, dato che il Cristianesimo si diffuse partendo dai grossi centri cittadini. In epoca più tarda, sempre dai cristiani, il termine venne utilizzato per indicare gli islamici e assunse dunque l’accezione di non cristiano. Quindi, coloro che abitavano in quella contrada avevano avuto una “contaminazione” con una religione pagana: anche se non erano islamici, comunque era considerata gente “infida”, perché nelle loro vene scorreva sangue saraceno. Non a caso il clan più numeroso e prevalente che risiedeva nella zona di Santo Pietro è quello che portava come appellativo “a’ razza a’ razza”, come se le sue origini tradissero il marchio della loro infamia: «Coloro che appartengono o discendono da un’altra razza».
D’altro canto perché l’Università va a costruire proprio in questo quartiere una Cappella intitolata a San Pietro? L’apostolo San Pietro è colui che ha rinnegato Gesù. Come infatti gli aveva profetizzato il suo Maestro: «In verità ti dico: questa notte stessa, prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte» (Mt., 26, 33-35). L’Università, facendosi carico di costruire una Cappella nel rione dei “Pagani”, era come se si volesse sottolineare che i suoi abitanti erano stati dei “rinnegati” così come a suo tempo lo fu San Pietro. Ricordiamo, infine, il rito crudele del “Gazzuzzu” (Galletto), che quando io ero bambino era stato sostituito con un povero coniglio: nel giorno di San Pietro, si scavava una buca (le strade non erano ancora asfaltate) e vi si metteva dentro un coniglio; poi, a turno, con occhi bendati ognuno doveva colpire la bestiola con un manico di scopa. Il rituale aveva lo scopo, secondo me, di cancellare (o sopprimere) il “segnale” che testimoniava l’avvenuto tradimento dell’apostolo, come se sopprimendo chi aveva emesso il segnale, cioè il gallo, si potesse cancellare anche la memoria del tradimento.
Quando si pensa a un centro abitato si è portati a vederlo come una comunità già bella e formata, come un organismo unitario costituito da tante famiglie legate tra loro da tanti vincoli sociali e di parentela. Questo accade perché siamo spontaneamente indotti a proiettare l’immagine che abbiamo al presente del paese nel più remoto passato. Così come lo vediamo oggi così pensiamo che sia sempre stato. Alla nostra immaginazione manca la facoltà di vedere il lento sviluppo di un abitato che prende sempre più forma man mano che i suoi nuclei originari cominciano ad estendersi, costruendo nuove abitazioni, nuove strade, sino a configurarsi come un unico centro. Se, come possiamo congetturare, vi erano nuclei familiari sopravvissuti alla distruzione di Sestio, altri costituiti dall’arrivo dei Saraceni, forse “mischiati” con elementi autoctoni, altri costituiti dai bizantini, come facciamo a dare per scontato che questi nuclei così eterogenei tra loro hanno trovato una forma immediata di convivenza e che si siano riconosciuti quasi immediatamente come abitanti di una comunità omogenea? Non sarebbe più coerente pensare che ognuno di questi nuclei originari, se effettivamente si sono presentati sulla scena territoriale, ognuno con il proprio profilo culturale ed etnico, abbia costruito un proprio insediamento senza avere minimamente la cognizione di appartenere ad un’unica e omogenea comunità?
Dunque, all’inizio del nuovo abitato abbiamo la formazione di tre nuclei etnici ben distinti e separati tra loro: il primo nucleo è formato dagli ex abitanti di Sestio, cioè da coloro che sono sopravvissuti dopo l’assalto dei saraceni e che, presumibilmente, s’erano in parte salvati riparandosi nelle nostre montagne. Il secondo nucleo è costituito dai nuovi colonizzatori, i bizantini, tra cui spiccano i “Rižži”, che vanno ad occupare il lato nord-est, Porta dello Scarano, il punto da cui maggiormente può provenire un attacco esterno. Il terzo nucleo è costituito dai discendenti dei Saraceni, quelli che abbiamo definiti come “bastardi” o “figli colpa”, cioè tutti i nati dall’accoppiamento tra un saraceno e le donne catturate sul posto. Perché dunque il nuovo abitato formato da nuclei etnici così diversi nel giro di qualche decennio si riconoscerà come una comunità omogenea? La mia risposta, arrivati a questo punto, è semplice: perché esiste un atto collettivo che ha segnato la loro memoria. Questo atto è l’uccisione di una donna, “La Saracina”. Chi era dunque questa donna, era davvero, come racconta la nostra leggenda, la Regnante dei Saraceni che fugge nella notte sorpresa dagli armati di Costantinopoli? A mio parere, abbiamo adesso tutti le tessere per comporre il puzzle che da secoli aspetta una sua soluzione. È un esercizio difficile, perché bisogna tradurre tutti gli indizi che abbiamo a disposizione e raccoglierli in un quadro coerente.
Partiamo anzitutto dai dati certi: essa viene raffigurata nell’atto di fuggire, «avvolta in un lenzuolo» (Forestieri), «che si cuopre con un lenzuolo» (Fiore), «coverta in poche parti del corpo di una banda» (Pacichelli); il fatto che avesse addosso un cencio ha indotto a credere che la donna sia stata sorpresa nel sonno, e che, senza aver avuto il tempo di vestirsi, si sia avvolta nel lenzuolo per coprire la sua nudità. Forestieri vuole correggere la versione di Padre Fiore, richiamandosi, com’egli stesso scrive, alla «tradizione dei nostri maggiori», e afferma che se la donna fosse morta nell’assalto, essa «non sarebbe stata dipinta in atto di fuggire e coi capelli sciolti». L’“istantanea”, come in una fotografia, che abbiamo di questa donna è quella di una figura che fugge con in mano un pugnale, coperta da una striscia di stoffa e con i capelli sciolti al vento. V’è raffigurata una donna giovane, sulla trentina d’anni, diciamo anche piuttosto bella e avvenente. L’autore che l’ha ritratta nello stemma del polittico cinquecentesco è anonimo. Se questo stemma, come abbiamo detto, si trova a fianco di quello dei principi di San Severino, che all’epoca era i nostri signori feudatari, doveva essere riconosciuto già a quel tempo come lo stemma ufficiale della nostra Terra. Un altro dato inconfutabile: ciò che l’immagine narra (“fuga della donna”) è legata alla fondazione del paese. Possiamo classificare questo episodio come un “mito di fondazione”, ma, come scrive Girard, «gli storici moderni non prendono sul serio simili storie». Abbiamo registrato la reazione di Padre Russo, il quale, non diversamente dagli altri storici, vedeva in questa “storiella” aspetti inverosimili e assurdi, da sembrare così fantastici che è difficile prenderli anche per un attimo in seria considerazione. In altri termini, è difficile scorgere vittime reali e violenze concrete dietro temi così fantastici. Via via che ci siamo allontanati dall’episodio di violenza, tutti gli elementi della storia sono stati trasfigurati in una “favola innocente”; la storiella viene di generazione in generazione depurata dai suoi aspetti più cruenti, e la vittima, su cui un tempo si sono concentrati tutti i veleni e gli odi scaturiti all’interno della comunità, subisce una metamorfosi: se prima era considerata la causa del disordine e di tutti i mali che hanno investito una comunità, dopo la sua morte violenta subisce una sorta di “beatificazione”, e viene, appunto, considerata un’“eroina”. È il meccanismo, come spiega Girard, del “capro espiatorio”: «Quest’ipotesi infatti risolve l’enigma fondamentale di ogni mitologia: l’ordine assente o compromesso dal capro espiatorio si ristabilisce o si stabilisce grazie a colui che lo ha inizialmente turbato» (Girard, Il capro espiatorio, cit., p. 74).
Riprendiamo, dunque, il filo della nostra narrazione. Su un villaggio di contadini, un giorno s’abbatte un’orda selvaggia che lo mette a ferro e a fuoco. Pochi superstiti riescono a mettersi in salvo trovando rifugio tra i monti impervi. Molte donne vengono catturate e tenute in ostaggio. Tra queste però v’è una che si lega in modo particolare con il capo di quest’orda, fino a divenire “quasi” una di loro: rinnega le sue origini, tradisce il suo popolo. È ormai chiamata da tutti “A’ Saracina” perché vive e si comporta come una di loro. Dopo alcuni anni, arriva un esercito bizantino a snidare questa banda di “pagani”. A questo esercito si uniscono anche i superstiti del luogo. Gli arabi hanno la peggio, vengono tutti uccisi. Le donne che sono state costrette a giacere con questi “pagani”, vengono risparmiate, insieme ai loro figli, viene loro riconosciuto l’attenuante di essere state costrette a subire le violenze degli occupanti; ora però tutti danno la caccia alla “Saracina”; lei è colpevole perché non solo ha giaciuto con il loro capo ma addirittura è passata dalla loro parte. Forse ha addirittura combattuta a loro fianco. La scovano. Una turba inferocita comincia a strapparle i vestiti, quasi la denudano. Lei si difende stringendo nella mano un pugnale. Ma una folle di donne e uomini la circonda. Qualcuno comincia a tirare una bastonata alla Saracina, che cade a terra, altri colpi micidiali s’avventano sul suo corpo, martoriandolo. Nessuna la piange. Tutti tornano nelle loro capanne soddisfatti della vendetta, ma ognuno ha davanti ai suoi occhi l’immagine della donna che semivestita brandisce il suo pugnale. Il prima e il dopo sono cancellati. Rimane nella memoria di chi ha partecipato a quel linciaggio soltanto un’immagine e rimane adesso un luogo dove è stata uccisa la Saracina.
I tre nuclei che hanno partecipato all’omicidio si dividono. Questi tre nuclei non sono facile da amalgamare. Ognuno nutre nei confronti dell’altro un odio profondo e viscerale. Il nucleo dei sestini, sul quale prevale il clan dei “Caieni”, si stabilisce nel rione delle “Armi”. Quello, invece, dei discendenti dai saraceni si trovava a ridosso della fortezza, nel rione tra San Pietro o dei “Pagani”. I bizantini vanno a edificare lo Scarano. Tutt’e tre i nuclei hanno qualcosa che li accomuna: hanno partecipato all’omicidio della Saracina. Paradossalmente, questa colpa comune crea un legame di solidarietà: la comunità comincia a riconoscersi in questo atto fondatore. Il luogo dove è stata uccisa la Saracina viene riconosciuto da ognuno di questi nuclei come un luogo comune. Dire “Ara Saracina” voleva indicare il punto dove è stato commesso l’omicidio da tutti riconoscibile. E per cancellare questo sito l’intero abitato è stato denominato con questo nome. La donna traditrice del suo popolo è stata trasformata in un’eroina, trasfigurata nei suoi tratti, essa diventa la donna che con il suo eroismo mette in salvo il suo popolo. A questo punto, la storia reale, la violenza collettiva è già stata trasformata nel giro di poche generazioni in leggenda, e ognuno può ricamare la sua trama innocente. Vorrei concludere questa prima parte con le parole di Girard, la cui intelligenza mi ha permesso di svelare il mistero della nostra leggenda: «La congiunzione perpetua, nei miti, tra una vittima assolutamente colpevole e una conclusione violenta e insieme liberatoria non può essere spiegata se non con la forza estrema del meccanismo del capro espiatorio. Quest’ipotesi infatti risolve l’enigma fondamentale di ogni mitologia: l’ordine assente o compromesso dal capro espiatorio si ristabilisce o si stabilisce grazie a colui che lo ha inizialmente turbato. Ma sì, è proprio così. È pensabile che una vittima passi per responsabile delle sciagure pubbliche, ed è proprio quello che avviene nei miti, come pure nelle persecuzioni collettive, ma nei miti soltanto, questa vittima riporta l’ordine, lo simboleggia e addirittura lo incarna» (Girard, Il capro espiatorio, cit., p. 74). Ma sì, è proprio così: ecco perché oggi possiamo tutti gridare in coro: «Viva la Saracina», come un tempo magari i nostri antenati hanno gridato in coro: «A morte la Saracina».