Un mancino lo capisce da bambino: il mondo è storto, sono le convenzioni a farlo sembrare dritto. La nostra mano sinistra ci ha insegnato a leggere le parole al contrario, a usare un certo tipo di inchiostro leggero e secco, a guardare in speculare la vita. Più che maldestri, siamo bensinistri. La mano mancina, la mano storta, la mano sbagliata, la mano di ogni maneggio sinistro, è la mano con cui insisto e mi scasso. Una ogni dieci: è la mano che non prevedi. La mano destra del mancino, l’altra, è sempre arrabbiata, ingiustamente sacrificata, decaduta: mai una firma, mai un bacio al volo, mai un primo pugno. Con il cervello regolare di un destro, dice spesso, avrei goduto di un ben più autorevole destino; avrei firmato i documenti importanti che mi spettavano, avrei potuto, io sì, sfruttare le sedie con il piccolo tavolino mobile sul lato destro, pensate esclusivamente per me. Ultimamente la mia mano destra è però contenta, a causa di un piccolo incidente alla sinistra: finalmente è la preferita. Anche se per poco e lo sa. Perciò, non sta un attimo tranquilla e si gode ogni movimento. La mia mano sinistra, invece, riposa, sonnecchia: mentre scrivo, la vedo ferma e annoiata sul tavolo, ingessata in una ridicola posa, come un cane azzoppato disteso ai piedi del padrone in poltrona, umiliato per non essere riuscito a portargli le pantofole. La mano sinistra del mancino, la mano con cui in genere scrivo, mi ha stropicciato per prima gli occhi, chiusa in un pugno il mio primo giorno di vita, per ribadire la sua minoritaria differenza e colpire forte l’ombra ingiuriosa del maligno. Per bussare con tutte le forze alle porte del mondo e gridare, con me: “Eccomi, ci sono. E nella minoranza dell’uno sul dieci, voglio il mio posto in questo mondo specularmente riflesso, in questo universo a me contrario e che tuttavia accetto”.