A complicare il tutto interviene la suggestione di un quadro, presente nella stanza d’albergo che Moses divide con Ruth, un dipinto dal titolo Caritas romana, del cui autore non si sa quasi nulla, a parte che per la luce e la posizione dei personaggi si è ispirato a Rembrandt. Nessun mistero legato al quadro in sé, ma al fatto che è molto simile alla scena di un film che Moses ha girato in passato con Trigano e Ruth, che poi lui stesso ha cancellato per paura di offendere l’allora giovane attrice con la crudezza dell’azione.
Non è opportuno anticipare più di questo, non tanto perché ci siano misteri nella trama, quanto perché nel vissuto del protagonista in quei pochi giorni a Santiago si compie una sorta di viaggio interiore: Moses si sottoporrà, lui ebreo israeliano, ad un’autentica confessione cattolica. Poi, al ritorno in Israele, il viaggio interiore continua e tutto appare diverso. La figlia grande, la ex-moglie, poi la stessa Ruth, cha da attrice passa a regista. Tutto viene visto con occhi nuovi. Come se la riconsiderazione del passato portasse con sé nuove sfumature sul presente, sulle relazioni con gli affetti più vicini. Intanto l’ombra dello sceneggiatore, Trigano, riappare qua e là: nominato da altri, ricordato, indirettamente legato agli eventi in cui Moses si imbatterà una volta tornato a casa. Poi ci sono le scelte da fare, le decisioni al bivio: lasciar decantare le emozioni e i ricordi, o riprendersi quel passato con coraggio, con insistenza e impudenza al limite della dignità? Fare i conti con la propria età significa rendersi realmente conto che il tempo non è assoluto, ma relativo alle proprie scelte, per cui ogni attimo può caricarsi di nuovi significati, se non di rimedi al passato.
Adoro il realismo poetico di Abraham B. Yehoshua. La sua crudeltà impietosa con i personaggi, l’umanità dei loro piccoli grandi difetti, carne e sangue di anime che vorrebbero essere migliori di quello che sono. Le descrizioni delle loro case, delle strade apparentemente quiete ma minacciate da una guerra senza termine. La storia di Israele che fa da sfondo. Si può perdonare allora a uno scrittore così grande aver voluto mettere tutto, ma proprio tutto in questo romanzo. Tutta la sua maturità di scrittore e di uomo, a prezzo di un certo didascalismo, di un intellettualismo che trapela nei dialoghi, come se non avesse voluto dare niente per scontato. Come se non avesse voluto sottintendere nulla, ma spiegare ogni cosa, con il suo stile che si muove in un equilibrio inarrivabile tra il realistico-quotidiano e l’introspezione più raffinata.
Forse perché, come per il suo protagonista, che in fondo è un regista, un creatore di storie, anche per lo scrittore è giunto il momento di dire ogni cosa. Per non lasciare spazio, una volta per tutte, all’ennesima “scena perduta” e alle sue ossessioni.
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