Riducendo al minimo le fasi che precedono il rapimento e lasciando ad un breve quanto rocambolesco finale la soluzione dell'intrigo, il film si concentra sulla dialettica che si istaura tra tre protagonisti, apparentemente separati dai rispettivi ruoli, ma in realtà uniti da un ambiguità di fondo che diventerà con il passare dei minuti il motivo centrale del film.
Ambientato in unico spazio, ove si eccettuino brevi scene in esterno inserite piu' per enfatizzare la sensazione di generale claustrofobia che si respira lungo tutto il film che per una reale necessità, "Alice Creed", attraverso il genere, prova a raccontare una società dominata dal denaro ed incentrata da rapporti di forza in cui l'uomo è lupo all'uomo e dove la distinzione tra vittima e carnefice è solo un illusione per sentirsi più buoni.
Seppur macchiato da alcune situazioni poco credibili per quanto riguarda l'accostamento sociale tra i personaggi, evidentemente lontani per istruzione e provenienza, per non dire degli stratagemmi operati sul genere (impensabile il susseguirsi di momenti topici in cui i tentativi di fuga della prigioniera vengono costruiti e poi smontati con espedienti inverosimili) al fine di giocare la partita sul piano del confronto mentale e psicologico, il film riesce a portare a casa il risultato.
A metà strada tra le ruvidezze proletarie di certo cinema Lochiano, che Blakeson riprende attraverso la presenza di Martin Compston, già interprete di Sweet Sixteen, e la patinata asetticita di molto cinema inglese dell' ultima generazione (4321 di Mark Davis e Noel Clarke) "La scomparsa di Alice Creed" merita almeno una visione.