La scoperta di una antica Civiltà sconosciuta nell’Iran orientale

Creato il 16 maggio 2015 da Univeryo7p

La fede nella sopravvivenza del defunto dopo la morte è simboleggiata nelle rappresentazioni di rinascita della vita sulla terra dopo il diluvio universale, che sembrano narrate dalle decorazioni sui vasi restituiti dalle necropoli di Jiroft, capitale di una civiltà antichissima ultimamente scoperta sull’altopiano dell’Iran sud-orientale: è questa la suggestiva interpretazione formulata dall’archeologo veneto Massimo Vidale, sui reperti recuperati dalle tombe della cultura dell’Halil Rud (il fiume Halil), fiorita nella seconda metà del terzo milennio a.C., contemporanea alla civiltà dei Sumeri. Era lo stato di Marhashi (così lo chiamavano i Sumeri), molto ricco e forte, così potente che i regnanti di Ur ne cercavano l’alleanza mandandovi le loro figlie come spose.

Almeno una dozzina delle ricche necropoli di questa civiltà perduta furono saccheggiate nel 2001 in seguito ad una devastante alluvione che mise allo scoperto le tombe (si calcola che siano decine di migliaia i preziosi reperti trafugati e rivenduti clandestinamente). Gli scavi condotti dall’Iraniano Youssef Madjidzadeh, da Massimo Vidale e dagli altri suoi colleghi in una delle grandi necropoli saccheggiate della valle dell’Halil  hanno permesso di recuperare almeno parte dei corredi tombali distrutti dai clandestini. Una sola tomba è stata sinora  trovata inviolata.

Vi si leggono i segni di un rituale funerario che lo stesso archeologo trova enigmatico: il defunto vi era stato adagiato su un fianco in posizione fetale, ma la salma risulta incomprensibilmente riesumata in parte dopo meno di un anno dalla sepoltura. Nella tomba sono stati identificati anche i resti di una pecora sacrificata nel corso del rito funebre, le quattro zampe mozzate davanti alla porta della camera tombale, la coda, combusta, sotto il corpo del defunto:

”È tutto ancora da comprendere e da interpretare”, ammette Vidale, in un’intervista concessa a “Scienzaonline.com”.in occasione della 22° Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico di Rovereto, dove è stata presentata l’anteprima mondiale del suo film “L’Aquila e il Serpente” (regista Alessandro Dardani), con cui l’archeologo, insieme ai colleghi del Museo Civico di Rovereto,  ha documentato nuove scoperte e nuove suggestioni. La religiosità e la mitologia di questa civiltà, dimenticata da quattro millenni, ci viene raccontata dalle immagini scolpite sui vasi in clorite dei corredi funebri (la clorite è una pietra di colore verde scuro, un silicato di ferro e magnesio) recuperati dalla polizia iraniana dopo il saccheggio delle necropoli di Jiroft. Innumerevoli sono i reperti dello stesso tipo sottratti all’Iran e trafugati all’estero. Cause internazionali intese a recuperare almeno una parte degli altri reperti sono ancora in atto, promosse dal governo iraniano soprattutto nei confronti del Louvre di Parigi e di alcune case d’asta britanniche.

Non disponiamo purtroppo di documenti scritti della civiltà dell’Halil Rud, con l’eccezione di quattro tavolette coperte di misteriosi caratteri geometrici, ancora indecifrabili (mentre i Sumeri già erano da tempo padroni della scrittura, che usarono, almeno dagli inizi del secondo milelnnio a.C., per trascrivere i loro mit in caratteri cuneiformi). Il patrimonio di immagini dei vasi in pietra di questa civiltà è tanto sorprendente quanto ricco: Vi compaiono leoni che assaltano le loro prede, affrontati da mastini (cioè cani domesticati), e convulse lotte fra serpi e felini, orsi e leoni. Alcune figure sono enigmi la cui soluzione – come ammette Vidale – appare ancora lontana: combattimenti di uomini-toro, uomini-leone e uomini-scorpione, sempre in lotta fra loro e/o contro animali.

Foto 2 – il Dio sopra i flutti apre l’arcobaleno, segno di pacificazione con l’umanità (l’arcobaleno è presente nella versione persiana/iranica del mito, ma non in quella sumero-babilonese, come Vidale spiega nel pezzo)

Inoltre, in alcuni dei vasi in pietra recuperati dalle autorità Iraniane o perduti nelle spire del mercato antiquario sono ben chiaramente leggibili scene e racconti rinascita ad una vita ultra-terrena, con una chiave di lettura che potrebbe richiamare proprio al mito di Gilgamesh. Oltre alla saga mesopotamica, sembtrano affiorare racconti documentati, più tardi ancora, nella Bibbia. In particolare, Vidale identifica un simbolo di resurrezione,o almeno di rinascita, nell’arcobaleno che il dio, nelle narrazioni figurative rinvenute in quelle tombe, apre in alto nel cielo, ordinando la fine del diluvio e la riemersione delle terre dalle acque: è la pacificazione della divinità con l’uomo, dopo la punizione, con la promessa di non far tornare mai più quella estinzione; ed è il ritorno della vita e della futura moltiplicazione dei viventi.

Tuttavia, come sottolinea l’archeologo veneto, l’apertura dell’arcobaleno dalle mani del dio, raccontata nelle tombe di Jiroft, che appartengono ad una cultura iranica, non compare nella saga mesopotamica babilonese. Invece, l’arcobaleno è ben presente nel racconto biblico della fine del diluvio, dove sta a significare la promessa divina di non punire mai più l’umanità con la condanna allo sterminio. E c’è da chiedersi perché, dal momento che “Genesi” (il primo dei cinque libri del Pentateuco biblico ma l’ultimo ad essere scritto) è databile al sesto secolo a.C., proprio durante la prigionia del popolo di Israele a Babilonia dopo la deportazione in massa. Fu grazie al contatto con Babilonia che il mito del diluvio universale entrò a far parte anche della cultura ebraica. Ma allora perché l’anonimo redattore del Genesi biblico riprende l’arcobaleno, appartenente alla versione iranica, più remota, invece di quella sumero-accadico-babilonese, che sembrerebbe la più vicina alla cultura del popolo di Israele. Secondo  Vidale, questa preferenza è forse attribuibile alla simpatia e alla gratitudine che il popolo ebraico nutriva per la Persia (Ciro il grande, che aveva invaso la Mesopotamia, era appena stato il loro liberatore), piuttosto che per l’oppressore babilonese sconfitto.

L’arcobaleno che appare sui vasi di Jiroft (databili fra il 2400 ed il 2100 a.C,) risale ad un’epoca precedente l’unificazione della Mesopotamia sotto il dominio degli Accadi: questi ultimi distrussero l’impero dei Sumeri e mossero guerra anche a Marhashi, tanto è vero che gli stessi vasi di alabastro e clorite restituiti dallo scavo a Jiroft si trovano fra il bottino che gli invasori e saccheggiatori Accadi si portarono via in Mesopotamia. Su quei vasi predati si legge ancora l’incisione del nome del sovrano accadico conquistatore: Sargon, e i figli Manishtushu e Rimush). Il tema dell’arcobaleno che pone fine alla punizione divina appare chiarissimo nella fascia superiore di quattro vasi di clorite.

Nell’intervista a “Scienzaonline.com” Vidale ha spiegato come si leggono le immagini sui vasi di Jihad: il racconto della storia, inciso con una notevole qualità artistica, si dipana cronologicamente dal basso verso l’alto. In basso sono disegnati tori dalle zampe alate, che rappresentano le nuvole (il tuono è il loro muggito): comandati dal dio, i tori rovesciano sulle terre fiumi d’acqua che sgorgano dalle loro bocche e sommergono il mondo. Successivamente, dalle acque cominciano a riemergere le montagne, e ancora più in alto, al di sopra di tutto, il dio allarga le braccia aprendo l’arcobaleno per pacificare la terra e farvi ricominciare la vita.

Un altro simbolo di salvezza e di sopravvivenza per la resurrezione dopo la morte-diluvio universale, che ricorre sui vasi di clorite di Jiroft, è una sorta di Arca, una struttura architettonica a tre porte concentriche, in qualche caso circondata dai simboli di onde e flutti. Questa costruzione ricorda il Vara, il castello sotterraneo che nella versione iranica e zoroastriana (ben più recente) del mito prende il posto dell’arca di Noè. Il Vara è rappresentato come l’architettura di un castello sotterraneo, in cui uomini, piante e bestie si salvano dalle acque di un rovinoso disgelo che sommerge il mondo.

Che personaggi sono l’aquila e il serpente che danno il nome al titolo del filmato presentato a Rovereto, e in che modo la loro storia rappresenta la resurrezione dopo la morte? Fanno parte della saga di Etana, risponde Vidale: era un mitico re mesopotamico che, cavalcando un’aquila, era salito fino al dio del sole, Shamash, per chiedergli un’erba che lo guarisse dalla sterilità e gli consentisse di fondare la sua dinastia. La storia dell’aquila e del serpente è in realtà la “contaminatio” di due miti, e il racconto illustrato sui vasi di Jiroft verrebbe oggi classificato come un “prequel” da un cineasta che volesser lavorarci sopra. L’aquila e il serpente erano un tempo due personaggi alleati e amici, ma un giorno l’aquila commise un orrendo delitto: divorò i figli del serpente, ignorando anche le suppliche del proprio figlio, un aquilotto che lo implorava di non farlo. Quando il serpente si recò dal dio Shamash per chiedere giustizia, questi gli consigliò di nascondersi nella carogna di un animale morto e di aspettare che l’aquila scendesse a cibarsene. Questa la vendetta alla quale forse alludono altre immagini sui vasi di Jiroft: quando l’aquila penetrò nella carogna dell’agguato, il serpente l’aggredì, le spezzò le ali e la gettò in un pozzo (anche il pozzo, oltre alla carogna dell’animale, rappresenta la morte in cui l’aquila precipitò dopo l’empio peccato commesso) . Fu il dio Shamash stesso a salvare l’aquila, facendola “risorgere” dal suo pozzo mortale: proprio come chi si faceva seppellire con simili corredi funebri, sperava di risorgere a nuova vita. .

Non mancano, sui vasi di Jiroft, rappresentazioni che l’archeologo definisce “edeniche”, cioè di paradiso terrestre: gazelle e stambecchi sullo sfondo di giardini e pendii fioriti con mandorli, albicocchi, pistacchi e palmeti. La palma è un albero particolarmente significativo come simbolo, spiega Vidale: domesticata già nel 5°-6° millennio a.C,. è la pianta sempreverde, carica di frutti indeperibili, l’unica che consente la vita nei deserti

Guido Scialpi

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