Quando ho bisogno di mettere ordine nella mia vita, metto ordine nella mia scrivania. E la mia scrivania è notoriamente un buco nero.
Non è un mobile che uso, non mi vedrete mai seduta al mio tavolo a scrivere o studiare o chattare o aggiornare il blog. Sul letto, per terra, in bagno sì; alla scrivania no.
È un non-luogo, quello.
Libri, bottiglie, bicchieri, calzini (puliti), mutande (pulite pure quelle), jeans, maglioni, biglietti da visita, spille, auricolari, documenti di vitale importanza, cartoline d’auguri dal Natale 2005: tutto questo e molto altro sta là, senza un criterio apparente o reale, ammucchiato, abbandonato. Montagne di qualunque cosa rendono la mia scrivania inavvicinabile.
Per questo, quando avverto la necessità di trovare un posto ad alcuni tasselli sfusi della mia giovane e immatura esistenza, prendo una pezza in mano e mi armo di buona volontà: «Oggi sistemo tutto», mi dico. E per «sistemo tutto» intendo «risolvo il conflitto israelo-palestinese, sfiducio Berlusconi, faccio divorziare Carlo e Camilla, trovo un accordo tra la chiesa cristiana di Roma e quella cinese, regalo un cervello funzionante a Calderoli ed elimino il problema dei peli superflui. Poi vado a fare la manicure».
Se mi convinco che è il momento di far tornare il rigore e la disciplina tra le mie cose, vuol dire che dentro e fuori dalla mia vita s’è tutto scombinato. Ogni certezza, ogni speranza, ogni illusione devono avermi abbandonata.
D’un tratto, mi diventa intollerabile la presenza, lì sul tavolo, della carta con la quale era stato avvolto un regalo per il mio compleanno un paio di secoli fa. C’era sempre stata, quella carta da regalo stropicciata, e io l’ho presa e l’ho gettata via, dentro la busta di un negozio di cappelli a Dallas, in Texas. Pure quella busta era incastonata nel disordine dei miei oggetti e, senza un’apparente ragione, mi pareva insensato conservarla.
E le penne? Le mie bellissime penne – di due anni di Festival del Giornalismo di Perugia – le ho prese e le ho messe in una scatoletta, insieme alle Bic più anonime e agli evidenziatori Tratto più pacchiani che avessi mai visto.
Ho fatto un mazzolino di tutte le rose di carta che Monsieur Déjà vu ha creato per me nei mesi in cui ci vedevamo e le ho messe in un piccolo vaso che Dearfriend Ballerina mi ha regalato a Natale di due anni fa; ho impilato le mie moleskine una sopra l’altra. In basso quelle più vecchie, in alto quella del 2010. Ho buttato via i fogli con le liste di oggetti da non dimenticare prima di partire per gli States e ho appeso alla parete cartoline comprate a Edimburgo e mai spedite ai loro destinatari; ho attaccato al muro una luna di compensato dipinta di azzurro e di blu che m’ha donato il Parolaio una volta – un sacco di tempo fa – che aveva voglia di lasciarmi qualcosa di suo; ho messo via la targa di un premio di scrittura vinto quando ancora avevo la fantasia che serve per inventare storie; ho avvolto e conservato cavi e cavetti di macchine fotografiche digitali, cellulari, computer e lettori mp3 comprati con Amico CNVMEN e adesso mal funzionanti; ho gettato nella raccolta differenziata mucchi di fotocopie di libri sui quali ho studiato per materie i cui esami ho sostenuto tre anni fa.
Ho conservato con cura il primo numero del Fatto Quotidiano, e il primo numero di Repubblica Palermo distribuito anche a Catania, e anche il primo numero di SUD, perché tutto fa sostanza. Lo stesso ho fatto per USA Today rubato allo Sheraton Hotel di Phoenix, per il New York Times rubato con Collegamica Femminista e Rivoluzionaria a New York, direttamente dalla redazione del New York Times (all’interno della quale ci siamo imbucate con la sfacciataggine che ci è propria), e per il Times Scotland Edition, con la mezza pagina dedicata a Roberto Saviano. Ho ritagliato gli articoli di alcune riviste che hanno parlato di questo blog, e messo da parte le copie di Rivista di Grido, quelle dove sono stati pubblicati i miei primissimi pezzi, della stesura dei quali vi ho raccontato anni fa.
Dopo tutto questo, ho finalmente rivisto la lastra di vetro che copre il legno di cui è fatta la scrivania che non esisteva più. E ci ho trovato decine di post-it attaccati sopra, con appunti di cui non ricordo il senso. Probabilmente non ho fatto la maggior parte delle cose che dovevo perché le ho scordate, affidandole a foglietti gialli con un po’ di colla dietro di cui avevo rimosso l’esistenza.
Alla fine, mi sono sentita meglio. Ero assolutamente convinta di aver risolto tutti i miei problemi, di aver preso decisioni che rimandavo da un po’, di aver fatto scelte essenziali per il mio futuro. «Ha funzionato», mi sono detta, «ho sistemato tutto». E sono andata a dormire serena.
L’indomani mattina, è venuta a trovarmi Dearfriend Ballerina, di passaggio da Casa LaCapa.
Appena ha messo piede nella mia stanza, la scrivania è stata la prima cosa che ha notato.
«LaCapa», ha esordito, «ma come cazzo fai a resistere con tutto quel casino sul tavolo?».