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Glorie italiche: “La scuola medica di Salerno”
di Mary Falco
La scuola medica in una miniatura del Canone di Avicenna
Siamo a Salerno, nella metà del IX secolo: la guerra civile che condurrà alla scissione da Benevento, l’antica capitale longobarda, ha portato in città le truppe saracene, che dapprima reclutate incautamente come mercenarie, si rivelano ben presto un esercito invasore. Ma poiché, secondo un vecchio adagio, “non tutto il male viene per nuocere”, al seguito di queste truppe c’è anche una certa “Sibilia”, specializzata nella cura delle ferite, una novità assoluta nel mondo dell’epoca: una medichessa!
Ce ne parla Federica Garofalo, che si descrive così: “sono una specializzanda in Archivistica con la vocazione per la scrittura e il pallino del Medioevo e delle sue storie”. Ma Federica pecca d’eccessiva modestia! In realtà è attiva nella “Gens Langobardorum”, fondata da Luca Borsa e da altri ragazzi del Gruppo Archeologico Salernitano, per recuperare specificamente l’eredità longobarda, un tempo ritenuta pura barbarie medioevale dopo il periodo classico, ed oggi invece riconosciuta come uno degli elementi costitutivi della “civitas” salernitana; il gruppo ha organizzato tra l’altro con molto successo:
in cui Federica interpreta appunto la parte di “Sibilia” e per questo si è fatta confezionare il caratteristico abito e si fa costruire gli antichi strumenti di cura, a metà fra la rievocazione storica ed il recupero della memoria: scrupolosa com’è ci tiene a chiarire che in realtà il costume di medichessa da lei indossato si rifà alla documentazione iconografica del XII secolo, perché più in là nel tempo non è riuscita ad arrivare.
Questo è infatti più o meno il periodo comunemente indicato per la nascita della “Scuola medica di Salerno”
Vuole un’antica leggenda che l’ars medica salernitana sia nata dall’incontro tra quattro maestri, Helinus, Adela, Pontus e Salernus, un ebreo, un arabo, un greco e un salernitano. Dall’unione del loro sapere avrebbe avuto origine quella scuola la cui fama avrebbe travalicato i confini del paese. La fusione di elementi del mondo antico, bizantino ed islamico che la leggenda sottolinea, è alla base di quel sincretismo culturale che caratterizzò il Mezzogiorno d’Italia durante il Medioevo e che produsse proprio a Salerno esiti culturali ed artistici originali e raffinati.
Ma la leggenda trascura una presenza non meno importante: la forte tradizione monastica!
Infatti la stessa cultura scientifica salernitana deve molto della sua evoluzione al rinnovamento culturale legato al monachesimo benedettino, che ebbe a Montecassino il suo centro propulsore ed a Salerno la più alta espressione nell’abbazia di San Benedetto. D’altra parte tutto l’atteggiamento dei Longobardi nei confronti delle popolazioni locali si modificò proprio in seguito alla loro conversione al cristianesimo, ad opera del vescovo di Benevento, San Barbato, attorno al 680 ed alla conseguente ricostruzione del monastero, distrutto nel 581 ai tempi della conquista. Nelle infermerie dei conventi, come sanciva appunto la Regola di San Benedetto, venivano curati e soccorsi guerrieri e pellegrini, mentre nel giardino dei semplici si coltivavano le essenze con cui sapientemente si confezionavano i medicamenti: lavanda, rosmarino, rose selvatiche a chili, ma anche limoni, arance e melograni, che gli arabi avevano introdotto con successo nella penisola italiana. La parola “semplici” deriva dal latino medioevale medicamentum o medicina simplex usata per definire le erbe medicinali. Inizialmente non si parlava di giardino, ma di Horto dei semplici. Il primo orto botanico del mondo occidentale sorse appunto a Salerno!
Possiamo averne un’idea visitando oggi il “Giardino della Minerva”:
http://www.giardinodellaminerva.it/
recentemente restituito all’antico splendore, come ci racconta appunto Federica: “il Giardino della Minerva, aperto nel 2004 … un giardino a terrazza su sei livelli, di proprietà fin dal XII secolo della nobile famiglia Silvatico; e proprio l’enorme opera di medicina e botanica di Matteo Silvatico, vissuto nel primo ventennio del 1300 e maestro della Scuola Medica Salernitana, ha permesso all’equipe di lavoro, coordinata dal dott. Luciano Mauro, di individuare tutte le specie conosciute all’epoca e di riunirle tutte in questo giardino.
«La nostra intenzione è di trasformare sempre più il Giardino della Minerva in luogo della didattica,» spiega il dott. Mauro, specialista nella tutela dei paesaggi e responsabile del giardino. «Da meno di 5000 visitatori che avevamo nel 2004 siamo passati a più di 20000. … Ma vorremmo fare di più: creare dei laboratori di botanica e scienze naturali per gli studenti, e attività legate allo studio sulla Scuola Medica Salernitana.»
Liberamente tratto da:
http://www.radiocrc.com/arte/salerno-al-giardino-della-minerva-tornano-le-farfalle-20919
il giardino è irrigato da canalette provenienti da una fonte interna, che è la sua grande fortuna; Salerno comunque non ha mai sofferto di siccità e l’idea di “terrazzare” la montagna per ricavare questi giardini esposti a mezzogiorno, ne ha fatto una città verde.
La farmacopea medioevale illustra le proprietà di tutte le piante coltivate:
“L’acanto, se bevuto, stimola la diuresi e scioglie il ventre. Elimina il dolore al costato ed è di grande aiuto a chi cade dall’alto. La sua radice ridotta in polvere e con acqua calda è utile a chi avverte qualcosa di interno nelle vene”
“Il seme della senape, se masticato, giova contro la paralisi della lingua. Inoltre il decotto del seme della senape asciuga l’umidità dell’ugola, delle fauci e del cervello, contrastando le infreddature di antica data”
“L’asarabacca, un’erba profumata usata per ghirlande, ha numerose virtù: toglie il mal di testa, attenua l’infiammazione degli occhi, spegne il fuoco sacro, favorisce il sonno e cura fin dall’inizio l’alopecia” leggiamo nel codice “Historia Plantarum”, fine XIV secolo.
Appare probabile l’esistenza di uno scriptorium presso l’abbazia di S. Benedetto, che conferma il ruolo fondamentale dei monasteri anche per la trasmissione dei testi scientifici.
Le prime tracce di letteratura medica risalgono al secolo XI, pervenute in raccolte di scritti di terapia e patologia strettamente collegati alla tradizione classica e tardo antica: i presupposti teorici si fondano sulle teorie di Ippocrate e Galeno, che considerano la malattia come uno squilibrio operante all’interno del corpo umano tra i quattro umori in esso presenti: sangue, bile, flemma (secrezioni delle fosse nasali ritenute provenienti dal cervello) e atrabile o bile nera ritenuta proveniente dalla milza) e sullo studio di alcuni trattati pratici e farmacologici.
A questo periodo appartiene l’opera di Alfano (1010-1085), abate di San Benedetto e poi vescovo di Salerno. Grecista e latinista, come ogni prelato del suo tempo, tradusse in latino dal greco opere di medicina e fu egli stesso autore di trattati medici: De quattuor umoribus, un lavoro clinico terapeutico sulle alterazioni degli umori, sulla sintomatologia, sulle terapie e sullo studio dei semplici vegetali, e De pulsibus, ripreso dagli scritti di Galeno. Molti di questi medici furono monaci e chierici, anche se la componente laica ebbe un ruolo determinante nella definizione dell’arte medica salernitana: a gestione laica era l’ospedale di S. Biagio, fondato a Salerno nel 1138 presso la chiesa di S. Giovanni extra Moenia. Suoi contemporanei furono Garioponto, Petroncello e Trotula … una donna finalmente!
Infatti la cultura longobarda riconosceva alla donna una completa parità con l’uomo e dato che quasi tutte le attività si apprendevano in famiglia, non mancavano fanciulle che avevano imparato dai padri ed insieme ai fratelli arti ritenute comunemente maschili, come la retorica, la filosofia, la scienza appunto e l’uso stesso delle armi … ma questo è un discorso che ci porterebbe lontano!
Il De Renzi, che è il più importante tra i suoi biografi, suggerisce l’ipotesi che l’illustre medichessa fosse la moglie di Giovanni Plateario il vecchio, da cui ebbe due figli, Giovanni junior e Matteo, che proseguirono l’attività dei genitori e sono ricordati come Magistri Platearii, fondando dunque una famosa dinastia di medici. A Trotula viene attribuita la compilazione di un trattato sulle malattie delle donne: “De mulierum passionibus ante et post partum”, edito a stampa solo nel 1544, a Strasburgo, nell’edizione tarda di George Krant; la sua traduzione italiana, fortemente interpolata, è incorporata nell’edizione aldina di Medici Antiqui Omnes, pubblicata a Venezia, 1547.
Il De passionibus segna la nascita dell’ostetricia e della ginecologia come scienze mediche moderne. Tra le importanti nozioni in esso contenute, vi è espressa per la prima volta la necessità di suturare chirurgicamente le lesioni perineali. Aldilà del suo valore scientifico, colpisce per l’altissimo potenziale umano; in un’epoca di diffusa misoginia, il De passionibus ha il coraggio di considerare attentamente ogni aspetto della vita femminile: la malattia, la maternità, il parto, l’allevamento dei figli, e persino l’avvenenza. Il corpo femminile viene analizzato nella sua interezza e complessità, in una dimensione globale. Il De mulierum passionibus, definito Trotula maior, si trova talvolta, accompagnato da un altro testo, il De ornatu mulierum, detto Trotula minor, un trattato sulle malattie della pelle e la loro cura.
È curioso che la prima dottoressa donna ricordata dalla storia, fosse così attenta alla bellezza, considerandola una parte essenziale della salute.
Trotula non trascura la cosmetica ed è prodiga di consigli relativi a quanto possa servire a sottolineare ed esaltare la bellezza o a mascherare sapientemente piccoli difetti con unguenti, balsami, profumi e tinture ricavati dal mondo vegetale. Di prodotti di bellezza ce ne sono di tutti i tipi: creme varie a base di sugna, olio o latte di mandorla, balsami fatti di malva, violetta o foglie di salvia bollite nel vino. Il De Ornatu di Trotula vi dedica ampio spazio, dando ricette per prevenire le rughe, guarire le impetigini, rendere i denti più bianchi, rimediare alla caduta dei capelli … vi si trovano anche ricette di “fard” a base di biacca (carbonato di piombo, per la verità piuttosto micidiale per la salute, ma all’epoca non lo si sapeva ancora) e rossetti ottenuti dalla polvere di robbia o dalla resina di pernambuco (quest’ultima però dev’essere un’errata trascrizione, perché il pernambuco è un albero brasiliano che Trotula certamente non conosceva!) La cosa interessante è che molti degli ingredienti descritti da Trotula vengono usati ancora oggi nell’industria cosmetica … a parte i derivati del piombo, naturalmente.
Una ricetta famosa è per esempio la “maschera colorante per capelli” saracena a base di ceneri di rami di vite e di frassino, cotti nell’aceto insieme alla noce di galla; va applicata dopo aver lavato i capelli con la liscivia e lasciata agire per una notte intera. Trotula consiglia anche delle lozioni per coprire i capelli bianchi: per i capelli castani, bisogna lavarli con uno “shampoo” composto da gomma adragante, noci di galla tostate o estratto di castagne cotti in un infuso di acqua piovana e foglie di noce; i capelli neri invece vanno lavati con acqua e raccolti per due giorni e due notti con una maschera a base di ruggine, noce di galla, noci e allume bolliti nell’aceto. Tutta quest’attenzione può stupire in un paese dove i capelli sono coperti dal velo o soggiolo o copricapo che distingue le donne sposate dalle signorine en cheveux (“in capigliatura”): tutte rigorosamente con capelli lunghissimi, raccolti in trecce e chignons. Ma se il mondo medievale raccomanda alle donne di nascondere i capelli per uscire di casa, è proprio perché li considera un bene prezioso e conturbante, che va conservato con cura. Si raccomanda da ogni parte la più scrupolosa pulizia ed è importante che siano sempre in ordine e ben pettinati: i pettini possono essere d’avorio, d’osso o di bosso. Alcuni sono sopravvissuti fino a noi, e sono dei veri capolavori. La stessa cura è riservata anche al resto del corpo, fugando una volta per tutte l’idea che il medioevo sia un’epoca sporca.
Nei secoli XII XIII, con il diffondersi dei testi arabi tradotti da Costantino l’Africano, l’incremento degli scambi commerciali con la Spagna, l’Africa e la Terrasanta e la diffusa pratica medica incrementata anche dai pellegrini e dai feriti reduci dalle Crociate, il fulgore della scuola di Salerno toccò il punto culminante. La produzione scientifica raggiunse la massima sintesi e originalità nelle opere di terapia e diagnostica di numerosi maestri, tra cui il figlio di Trotula: Giovanni Plateario. L’abitudine all’osservazione dei sintomi nell’individuazione dello stato patologico diede luogo ad una fiorente produzione di studi sull’analisi delle urine. Maestri quali Mauro di Salerno, Ursone ed Egidio di Corbeil dedicarono importanti trattati all’indagine uroscopica. Particolare sviluppo ebbe la farmacologia, che si avvaleva essenzialmente dei semplici vegetali. Nascono trattati in cui le erbe vengono scientificamente indagate e classificate in base alla loro proprietà medicamentose, diversamente combinate e dosate secondo le varie applicazione terapeutiche.
Gli insegnamenti della Scuola hanno avuto grande diffusione grazie al Regimen Sanitatis Salernitanim, scritto in versi in modo da poter essere ricordato facilmente, contiene rimedi e consigli per preservare la salute, uniformando la condotta di vita ai ritmi naturali del proprio ambiente e del proprio organismo: dieta, passeggiate, riposo e moderazione. È un’opera collettiva, anonima, risultato della consuetudine popolare, raccolta e commentata nel secolo XIII dal medico catalano Arnaldo da Villanova. Si presume che i primi versi siano stati scritti intorno al X secolo e il genere è quello dei tacuina sanitatis, opere a carattere enciclopedico, in cui accanto all’illustrazione degli elementi della natura, vi è quella degli alimenti, degli stati d’animo e delle stagioni, allo scopo di salvaguardare la salute mantenendo un perfetto equilibrio tra uomo e natura.
Il nucleo originale andò accrescendosi negli anni, tanto che i 362 versi della prima edizione a stampa del 1479 diventarono circa 3520 nelle ultime edizioni. Il poema a volte viene dedicato a un Anglorum Regi, forse Roberto di Normandia, altre volte ad un Francorum Regi, dediche che se autentiche, tenderebbero a definire la sua esatta datazione. In realtà queste sono di molto successive alla sua origine.
La Summa dell’insegnamento salernitano è condensata nei versi, che suggeriscono un tipo di vita igienica e tranquilla:
“…se vuoi star bene, se vuoi vivere sano,
scaccia i gravi pensieri,l’adirarti ritieni dannoso.
Bevi poco, mangia sobriamente;
non ti sia inutile l’alzarti dopo pranzo;
fuggi il sonno del meriggio;
non trattenere l’urina, né comprimere a lungo il ventre;
se questi precetti fedelmente osserverai, tu lungo tempo vivrai.
Se ti mancano i medici, siano per te medici
queste tre cose: l’animo lieto, la quiete e la moderata dieta…”
Inizialmente i medici devono aver lavorato con i loro allievi in propri laboratori e solo in un secondo momento essi si devono essere riuniti in corporazione, dando origine appunto alla Scuola Medica Salernitana.
Nel XI secolo si trovano infatti a Salerno libere associazioni di maestri e di studenti per l’apprendimento teorico-pratico, della medicina.
Il primo documento in cui la Scuola Medica Salernitana viene codificata e definita con un curriculum e programmi di studi è nelle Costituzioni di Melfi emanate da Federico II nel 1231.
Nel 1252 la scuola ricevette da Corrado II di Svevia la qualifica ufficiale di Studium e nel 1280 Carlo II d’Angiò approvò il primo statuto in cui la Scuola veniva riconosciuta come Studium generale in medicina.
Purtroppo però più la storia della scuola prosegue … e meno donne compaiono!
Così ci rivolgiamo di nuovo a Federica, vincitrice dell’8ª edizione del concorso letterario nazionale “Il racconto nel cassetto. Premio città di Villaricca” con: “Il Tamburo delle sirene”:
Maestra Mercuriade, medichessa della Scuola Medica Salernitana, giovane, bella stimata e potente, è stata vittima di un dongiovanni famoso: il conte Nicola Rufolo di Ravello; non ha “ceduto”, ma per poco, e forse più perché, da dottoressa, conosceva anche troppo bene l’altra faccia dell’amore, avendo curato tante ferite, che all’epoca si chiamavano “incidenti”, inferte da mariti violenti alle rispettive mogli nel Salernitano e per questo preferiva tenersi alla larga da questo genere d’avventura. Non virtù dunque, ma prudenza … e poi la corte di quell’uomo, inutile negarlo, l’aveva lusingata e questa cosa l’ha fatta sentire falsa e sporca, colpevole nei confronti della moglie del conte: Gaita.
Decide dunque di confessarsi e non da un prete qualsiasi, ma nientemeno che dal grande Tommaso d’Aquino, aspettando una notte intera fuori dal convento, per essere ricevuta alle prime luci dell’alba.
E quella notte la passa a suonare la tammorra, il grosso tamburo a cornice con la membrana di pelle di capra o pecora seccata, tesa su telaio circolare di legno, in genere quello dei setacci per la farina, cui sono fissati, a coppie, dischetti di latta detti cicere oppure cimbale, che oggi si ricavano dai barattoli usati per la conservazione dei pomodori. Già perché la tammorra si fabbrica ancora in Campania, ma le sue origini sono così antiche, che la si dice già suonata dalle sirene di Omero.
Da qui appunto il titolo del racconto, che conferma ciò che avevo confusamente intuito, dopo la grande Trotula si distinguono solo nomi: Mercuriade, vissuta ai tempi di Manfredi, Abella di Castellomata detta Abella Salernitana, Maria Incarnata, di cui abbiamo l’atto del rilascio del suo diploma, datato 1343 e Rebecca Guarna, famosa per i trattati “De Febris” e “De Urinis et Embrione”, tutte e tre attive nel XIV secoloe per finire Costanza Calenda del XV secolo. – Nella mia raccolta di racconti, tento di fare delle congetture – mi spiega Federica Garofalo – basandomi soprattutto, dove possibile, sui membri delle rispettive famiglie. L’unica su cui si può essere un tantino più precisi è Costanza Calenda: era figlia di Salvatore Calenda, fisico e chirurgo, priore del Collegio Medico di Salerno e poi di quello di Napoli, e infine medico personale della regina Giovanna II di Durazzo, dal 1414 al 1435. -
Pare che la nostra Costanzella, (era soprannominata così) si fosse laureata in medicina verso il 1422, che fosse l’assistente del padre e tenesse per conto proprio delle conferenze all’università di Napoli.
Una chicca curiosa è il documento in cui “Costanzella” riceve, nel 1423, il consenso della regina per il matrimonio con Baldassarre, il signore di Santomango, che dovette anche provvedere alla sua dote – Dovette essere per amore, secondo me. – commenta Federica – Il fatto che lui pagasse la dote significa che Salvatore Calenda fosse messo maluccio; e Baldassarre apparteneva a una delle famiglie più nobili e potenti dell’Italia meridionale. E non scelse una Sanseverino di Marsico, o che so una Carafa … ma Costanza Calenda, di piccola nobiltà e per giunta medica, figlia di un medico, cioè di qualcuno che lavorava con le mani! –
Ma con questa delicata storia d’amore siamo arrivati anche all’apogeo della storia della scuola … e d’ora in poi ci aspetta solo il declino! Infatti lo sviluppo istituzionale della Scuola seguì un percorso inverso all’evoluzione scientifica: a partire dal secolo XIV, allorquando il centro del potere e dell’elaborazione culturale si spostò dal Mediterraneo al cuore dell’Europa, la Scuola Salernitana perse definitivamente la sua funzione trainante, di grande richiamo internazionale, per rientrare in una storia di ambito locale. In ogni caso svolse la sua attività ancora per numerosi secoli, attraverso alterne vicende.
Nel XVI secolo allo Studium si affiancò il Collegio Doctorum, una corporazione organizzata di dottori, con a capo un Priore che aveva la facoltà di conferire lauree in Filosofia e Medicina. La Scuola cessò la sua attività nel 1811 quando, con la riorganizzazione dell’istruzione pubblica del Regno, Gioacchino Murat attribuì esclusivamente all’Università di Napoli la facoltà di conferire lauree.
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Per approfondimenti
www.lascuolamedicasalernitana.beniculturali.it
Oggi le studiose come Federica stanno riattualizzando la figura della medichessa, non solo come immagine folkloristica, ma come ricupero di un’identità femminile, ecco di nuovo come racconta una delle sue ultime esperienze di “revocatrice”:
… Un’ “Armata Brancaleone”. è proprio il caso di dirlo: una decina di trentenni o quasi raccolti un po’ a casaccio, la maggioranza laureati in Beni Culturali, accomunati dalla passione per la Storia Medievale, e dall’amore per la nostra città, Salerno. Il tutto nato quasi per caso, due anni fa, dall’idea di tre ragazzi del Gruppo Archeologico Salernitano di movimentare la visita al complesso di San Pietro a Corte con una rievocazione in costume: una pazzia per loro stessa definizione, messa in piedi il giorno prima. Ma, chissà perché sono sempre le follie ad essere contagiose: almeno per me, quando mi hanno prospettato l’idea di ricostruire materialmente almeno la vita di corte salernitana dei secoli VIII e IX (pressoché sconosciuti nell’ambiente del Living History), la miccia si è accesa immediatamente.
Da subito abbiamo voluto che la nostra ricostruzione fosse più fedele possibile; così ci siamo immediatamente rimboccati le maniche, spulciando testi, immagini, reperti archeologici, alla ricerca del dettaglio per armi, abbigliamento e vita quotidiana. Il nostro entusiasmo è stato contagioso: prova ne sia il fatto che entriamo in campo con un laboratorio di ceramica, quello di artigianato in legno di Mastro Arcibaldo e uno di tintura dei tessuti in collaborazione con l’associazione I Colori del Mediterraneo; nostro fiore all’occhiello promette di essere il laboratorio sull’alimentazione longobarda, che può contare sulla collaborazione dell’Archeoclub di Montecorvino Rovella, e del dott. Leonardo Lozito, direttore del Gruppo Archeologico Lucano che aveva già dato delle dritte importanti per l’evento Alla tavola del principe Arechi.
Sapevamo che la Borsa di Paestum sarebbe stato il momento della verità; vi ci siamo preparati in fretta e furia, con un ritmo massacrante, tanto ad aver costretto Luciano Guasco (che ci ha aiutato a realizzare gli abiti storici) a sgobbare fino alle quattro di mattina! Tanta fatica, ma ne è valsa la pena: malgrado qualche imperfezione (tra cui la sottoscritta, con un anacronistico abito duecentesco), il bilancio è stato più che positivo. La gente sostava al nostro stand, incuriosita dall’exercitalis (guardia del corpo del principe) vestito di tutto punto con tanto di cotta di maglia, elmo e lancia, esaminava gli strumenti medici sistemati su un sacco di Babbo Natale capovolto (miracolo di Adelperga, al secolo Francesca). Per non parlare delle tartine di segale con crema di rafano, spazzolate tutte in tre giorni!
Tratto da:
http://ilpalazzodisichelgaita.wordpress.com/2012/11/19/nasce-la-gens-langobardorum/
condividiamo l’entusiasmo di questi ragazzi, perché la rievocazione, che in molti stati d’Europa è considerata a tutti gli effetti un’attività lavorativa, regolarmente retribuita, potrebbe essere una risposta reale ai problemi delle disoccupazione. Se l’unica industria che non è ancora andata in crisi è appunto quella turistica, i nostri dirigenti dovrebbero riflettere sul differente impatto che avrebbe sui visitatori un’Italia “vera” cosciente delle proprie radici, rispetto alla “piccola Disneyland” a cui è ridotta oggi.
E prima di lasciare Federica vogliamo rivederla nei panni di Mercuriale:
http://ilpalazzodisichelgaita.wordpress.com/2012/08/24/guardaroba-duecentesco-finito-o-meglio-una-mattina-con-mercuriade/ inutile aggiungere che le immagini sono state girate nel http://www.giardinodellaminerva.it/
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L'articolo La scuola medica di Salerno è tratto da ACAM.it - Associazione Culturale Archeologia e Misteri. L’intera opera è pubblicata sotto una Licenza Creative Commons