Il caso vuole che ultimamente mi stia occupando molto di animali. Ne parlo e ne scrivo tanto, cercando di adattare le loro storie agli interessi di una bambina o di un bambino. L’altro giorno ci ho provato scrivendo anche di lei, dell’Acherontia atropos, la falena sfinge testa di morto, ma tutte le volte che ne leggo, mi rendo conto di quanto la sua “storia” sia avvincente anche per gli adulti. Per un certo tipo di adulti, perlomeno.
Iniziamo dal nome scientifico, che è già tutto un programma. Della sfinge testa di morto si occupò il buon Linnaeus che, tenendo fede al suo principio secondo cui «se non conosci il nome, muore anche la conoscenza delle cose», nel 1758 le trovò un nome bellissimo. Acherontia si riferisce al mitico fiume infernale sul quale Caronte svolge il lavoro di traghettatore di anime; Atropos, invece è il nome della terza Moira, l’immutabile, l’inevitabile, colei che ha il compito di recidere il filo della vita umana. Il nome di questa grande farfalla notturna richiama alle cose sotterranee, alla morte, non meno di quanto non faccia il suo aspetto.
Nel 1846 il maestro Edgar Allan Poe pubblica il racconto The Sfinx, che ha come protagonisti due individui costretti a rifugiarsi in un cottage sulle rive dell’Hudson, per non essere contagiati da una violenta epidemia di colera scagliatasi su New York. I due sono tormentati, però, dall’apparizione di un mostro, che altri non è che lei, Acherontia, le cui dimensioni appaiono spropositate e ingigantite per effetto di un’illusione ottica. Grazie a una falena, il lettore può esplorare il significato della paura, o meglio le sfaccettature di questo sentimento.
Poi è il turno di Guido Gozzano, poeta crepuscolare e autore, fra gli altri di Le epistole entomologiche, dove si mette in luce un altro aspetto caratteristico di Acherontia. Questa farfallona, infatti, è – unico caso al mondo – in grado di urlare facendo vibrare la propria faringe e venendo ascoltata fino a una quarantina di metri di distanza. Su di lei scrive il poeta: «L’entomologo tuttora indaga come l’Acherontia si lagni». E poi la cita nuovamente, in uno dei suoi componimenti più noti, La signorina Felicita.
«Tacqui. Scorgevo un atropo soletto
e prigioniero. Stavasi in riposo
alla parete: il segno spaventoso
chiuso tra l’ali ripiegate a tetto.
Come lo vellicai sul corsaletto
si librò con un ronzo lamentoso.
“Che ronzo triste!” – “È la Marchesa in pianto…
La Dannata sarà che porta pena…”
Nulla s’udiva che la sfinge in pena».
Neppure José Saramago scagiona Acherontia. In Le intermittenze della morte ne parla così: «Il volo setoso e malevolo dell’Acherontia atropos passò rapidamente per la memoria della morte, ma lei lo allontanò con un gesto della mano che tanto somigliava a quello con cui faceva sparire le lettere dal tavolo…». Un accenno, niente di più, che tuttavia conferma la cattiva fama della falena e le fa guadagnare la copertina del libro.
C’è poi anche Dracula di Bram Stoker e c’è I’m the King of the Castle di Susan Hill, ma soprattutto ci sono due film importanti. Il primo è Un chien andalou, firmato nel 1929 da Luis Buñuel e Salvador Dalí. Il film è un delirio onirico, psicanalitico, surreale, che squassa tutto quel che di film si poteva sapere fino a quel momento. La sfinge compare verso la fine, sul muro della casa della protagonista, come simbolo macabro, presagio di sventura.
Un richiamo pieno di fascino, e un legame inestricabile che si è creato fra un’opera e un’altra, e che… Be’, l’altro giorno, al Museo del Cinema di Torino, sono andata a vedere una mostra di locandine cubane. La salita è lunga, piena di sorprese, e si conclude – guarda caso – con due locandine rifatte: El perro andaluz e El silencio de los corderos. Acherontia mi segue, in qualche modo. È normale. È quasi primavera.