Fino a poco tempo fa l’unico tipo di intolleranza al glutine riconosciuta in ambiente medico era la celiachia, che veniva diagnosticata grazie a esami del sangue specifici e a biopsia intestinale. Più recentemente, i medici hanno cominciato a riconoscere anche la forma di sensibilità al glutine non-celiaca (NCGS), che purtroppo per il momento non si riesce a confermare con alcun esame di laboratorio, ovvero: esiste, ma non si sa perché.
La celiachia e le sue forme
La celiachia è un’intolleranza permanente ad una frazione proteica presente in alcuni tipi di cereali: la componente problematica è il glutine, ma la tossicità specifica è legata alle frazioni alcol-solubili del glutine (nello specifico gliadina nel frumento, ordeina nell’orzo, secalina nella segale). E’ una patologia autoimmune geneticamente determinata: vuol dire che le persone che manifestano un determinato pattern genetico saranno predisposte a sviluppare la patologia; “autoimmune” significa che di fatto il corpo non riconosce una sostanza che gli dovrebbe essere famigliare (il glutine), e produce anticorpi per combatterla, proprio come se fosse un agente patogeno.
La manifestazione classica della celiachia è una sindrome di malassorbimento: diarrea, calo ponderale repentino, astenia, nei bambini blocco della crescita. Si ha spesso anche anemia, scarsa mineralizzazione ossea e dolori scheletrici, manifestazioni cutanee e alterazioni endocrine (amenorrea, sterilità, impotenza).
Nell’ultimo decennio sono state trovate anche altre forme di celiachia, definite silenti, latenti o potenziali: queste forme possono presentarsi con sintomi non strettamente gastrointestinali (dunque potrebbe non esserci né dissenteria né calo ponderale), oppure addirittura senza sintomi palesi. Nonostante le forme atipiche di celiachia non sempre diano manifestazioni riconducibili a problemi di digestione del glutine, possono compromettere lo stato di salute della persona allo stesso modo della celiachia classica: sul lungo termine potrebbero presentarsi osteopenia, osteoporosi, problemi neurologici, artrite, infertilità.
Capire se una persona sia affetta da celiachia è al giorno d’oggi piuttosto semplice: essendo una malattia autoimmune comporta necessariamente la secrezione di alcuni anticorpi (antigliadina, antiendomisio, antitransglutaminasi), facilmente rilevabili con un esame del sangue. Se l’esito è positivo, si procede poi a confermare tramite biopsia duodenale.
La non-celiachia
Recentemente i gastroenterologi, i dietisti e i ricercatori hanno cominciato a rendersi conto dell’esistenza di un altro tipo di intolleranza al glutine che non può essere definita celiachia: i pazienti che ne soffrono hanno una normale produzione di anticorpi e non presentano danni alla mucosa intestinale, eppure lamentano una serie di disturbi che sembrano risolversi con l’esclusione del glutine dall’alimentazione.
I sintomi avvertiti da chi soffre di NCGS (sensibilità al glutine non-celiaca) sono spesso sovrapponibili a colon irritabile: distensione addominale, meteorismo, alvo che alterna stipsi a dissenteria, gonfiore. Tuttavia, può anche capitare che ci siano sintomi extra-intestinali della più svariata natura: dolori alle articolazioni, problemi alla vista, mancanza di concentrazione, sensazione persistente di affaticamento; alcuni medici ipotizzano addirittura problemi di fertilità legati al glutine, quali cicli anovulatori o aborti ricorrenti.
Il problema della NCGS è la completa assenza di test diagnostici utili a rilevare la malattia: gli esami del sangue sono nella norma e la parete intestinale appare sana, dunque non sembrerebbero esserci motivazioni che spingano ad un’eliminazione del glutine dalla dieta. Eppure, quando a questi pazienti si tolgono fonti di glutine il quadro sintomatologico regredisce fino alla sua completa scomparsa.
Il glutine
Il glutine è formato da due tipi di proteine: glutammine e prolammine. Si trova in diversi tipi di cereali: frumento, farro, segale, kamut ed orzo.
La sua caratteristica peculiare è quella di conferire elasticità e coesione agli impasti da forno: maggiore è il contenuto di glutine in una farina, più facile sarà la panificazione. Ad esempio, ottenere un buon pane di segale è difficilissimo poiché la segale contiene molto meno glutine rispetto al grano; per lo stesso motivo è quasi impossibile ottenere un pane degno di questo nome da farina di mais o riso, dal momento che non contengono glutine.
Ecco perché nei secoli si è proceduto ad un’accurata selezione del grano, prediligendo e proteggendo le coltivazioni del grano a maggior concentrazione di glutine. Specialmente negli ultimi cento-centocinquant’anni, con la produzione industriale di prodotti da forno, la selezione di frumento ricco di glutine si è dimostrata essere decisiva per aumentare la produttività delle aziende. Ma ci si è spinti oltre la normale selezione agricola di cultivar: vediamo perché.
Come ho detto inizialmente, il problema non è il glutine in sé, quanto la gliadina contenuta nel glutine. Diversi studi dimostrerebbero che il grano comunemente utilizzato per produrre pane, pasta e farine contenga una percentuale superiore alla norma di gliadina nel suo glutine. La caratteristica sembra essere riconducibile a un processo di mutazione genetica per irradiazione (non OGM) che gli scienziati operarono negli anni ’70 per la selezione e diffusione del grano Creso, ossia del tipo di grano maggiormente utilizzato per la produzione di farine e derivati. Il grano Creso garantisce infatti una maggiore produttività e minori problemi di coltivazione, eppure le sue caratteristiche intrinseche sembrano aver peggiorato notevolmente la tolleranza dell’uomo alla gliadina.
Diversi studiosi, ricercatori e allergologi ritengono che l’aumento del contenuto di gliadina nel grano e il consumo più frequente e consistente di farinacei sia da associarsi all’aumento di casi di celiachia e di sensibilità non-celiaca al glutine.
Le alternative gluten-free
I prodotti senza glutine che si vendono in farmacia e in angoli appositi nei supermercati sono spesso costosi e poco bilanciati dal punto di vista nutrizionale: l’assenza di glutine viene compensata con oli vegetali, che permettono di ottenere una sofficità e consistenza simile ai prodotti da grano. Sono sovente contenuti anche additivi, stabilizzanti ed emulsionanti.
Fortunatamente, esistono anche alimenti naturalmente privi di glutine che possono essere sostituiti al pane e alla pasta: ad esempio grano saraceno, riso, mais, patate, tapioca, quinoa, amaranto. Con le loro farine possono essere preparate pianelle, piadine, crepes, torte dolci e salate, chips, gnocchi, sformati…
Per chi soffre di sensibilità non-celiaca al glutine può essere interessante ricordare che alcune varietà di grano, pur contenendo glutine, hanno una concentrazione favorevole di gliadina, e dunque non causano l’insorgere del quadro sintomatologico. Ad esempio, il farro e la segale, il grano Saragolla o la varietà Senatore Cappelli.
Lo sapevi che…
L’avena è un cereale che a volte viene messo nella lista di quelli contenenti glutine e a volte tra quelli che ne sono privi. Una review sembrerebbe confermare che l’avena, di per sé, non contenga glutine, ma che possa esserne contaminata: spesso i campi d’avena sono limitrofi a quelli di frumento, quindi è altamente probabile che vento o insetti trasportino residui di glutine da una coltivazione all’altra. La review dimostra che l’assunzione d’avena da parte di soggetti celiaci non comporti problemi nel 99% dei casi, ma rimane comunque una minima possibilità di scatenare i sintomi. Possono invece consumarla senza problemi persone che soffrono di intolleranza non-celiaca, in quanto non risentono delle minime tracce che possono essere eventualmente presenti.
Il seitan, o muscolo di grano, è un sostituto proteico soventemente usato nelle alimentazioni vegetariane. Chi soffre di celiachia o intolleranza al glutine lo deve escludere dalla propria cucina, dal momento che è prodotto interamente a partire dal glutine di frumento. Oltretutto, il glutine è carente dell’amminoacido essenziale lisina, e pertanto il seitan non rappresenta una fonte proteica bilanciata: bisognerebbe quantomeno associarlo a legumi per poterne aumentare il valore biologico.
Bibliografia
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