La Senza Nome [Narrativa]

Creato il 27 maggio 2015 da Wsf

La città sprofondava lentamente nella pioggia, silenziosa e immensa, con il solo rimbombo dell’acqua ad eccheggiare lungo i vicoli. Tutto era immerso in un’atmosfera caotica e sognante al tempo stesso, come un’antica città sommersa sul punto di riemergere dalle acque in cui era sprofondata. Le strade erano fiumi, le pareti dei palazzi cascate. Da qualche parte, qui e là, lungo le strade più disastrate, le buche traboccavano d’acqua come geyser sul punto di esplodere. Non si salvava nulla da quel rumore imponente che pretendeva silenzio assoluto. Il rombo di una macchina, un treno che arrancava sui binari rigonfi d’acqua zampillante, perfino lo schianto dell’albero lungo la strada principale – nessuno di questi rumori sembrava rilevante. Tutto veniva assorbito dal continuo e assordante ruggito dell’acqua scrociante. Era cominciata come una bazzeccola, un evento da poco conto; una pioggerellina invernale e nulla più. Ma ecco che la notte era calata e la città si ammutoliva attonita di fronte a quell’attacco inaspettato, quella pioggia incessante che come un dio affamato e crudele chiedeva il suo tributo di sangue.

L’albero, sradicato dal forte vento, bloccava la strada principale. I lunghi rami si piegavano sotto la pioggia mentre le radici, forti della loro inaspettata uscita all’aperto, si drizzavano rigogliose in ogni direzione come grandi tentacoli di una piovra di marmo. Erano libere! L’albero si era ribellato alla dittatura che l’aveva voluto incatenare nel cemento; era servito l’intervento divino dal cielo per liberarlo. Se avesse potuto camminare, si sarebbe alzato sulle proprie radici per liberare i fratelli. Invece, figlio e schiavo della terra, sarebbe morto lì, lontano da ogni cosa Naturale. Il giorno dopo sarebbe stato trascinato via come spazzatura, unico elemento di disturbo nella civiltà dell’uomo. L’ultima umiliazione prima dell’oblio: la morte che non trasforma ma si limita ad ammuffire, incancrenire, abbrutire. Non sarebbe mai tornato a far parte del ciclo Naturale; la catena era spezzata per sempre.

L’acqua, che scorreva come un lungo fiume tranquillo, aveva cominciato ad aggirare quell’ostacolo. Il fiume improvvisato aggrediva il tronco, si infilava fra i rami e staccava le foglie, riempiva il buco che un tempo aveva accolto le radici. Attraversava l’albero e andava oltre brillando d’un inaspettato vermiglio succulento e vivo come se l’albero, cadendo, fosse morto da uomo. Eppure nessuno l’aveva sentito gridare.

Neanche Lei l’aveva sentito. Era ferma sul ciglio della strada, imbozzolata in un lungo impermeabile che l’acqua le premeva addosso, a guardare il sangue. L’aveva visto finire sotto la traiettoria dell’albero cadente, l’uomo, sparire fra le sue fronde, come un chiodo schiacciato dal martello sparisce nel muro senza far rumore. La pioggia gridava, ringhiava. Aveva ricevuto il suo sacrificio. Il sangue diventava sempre più chiaro, si diluiva nel fiume, e Lei guardava.

Sapeva che sarebbe successo. Vagava nelle notti come quella ad accertarsi che tutto si compisse secondo i piani. Se l’uomo fosse miracolosamente scampato alla vendetta dell’albero, avrebbe dovuto intervenire lei. C’erano dei conti da saldare, delle regole da seguire, ed era lì per accertarsi che tutto andasse secondo i piani.

Il suo non era un destino facile, e non l’aveva voluto. Era una delle prescelte: il suo compito era quello di sorvegliare il fragile rapporto fra la Natura e l’uomo; mediare compromessi per mantenere l’equilibrio. Era nata con quell’unico scopo. Non era un vero essere umano, e non era un vero animale. Non aveva nome. Aveva l’istinto del lupo e la coscienza dell’uomo. Sapeva parlare, anche se non lo faceva mai. Sapeva ascoltare sia gli alberi che il cuore degli uomini. Viveva in pace, lontana da tutto e da tutti. Ogni tanto, però, capitavano momenti come quello, momenti in cui andava ristabilito l’equilibrio, e doveva uscire dalla sua tana.

L’essere umano chiedeva troppo, si stava espandendo troppo in fretta: era aggressivo, vorace, distruttivo e caotico; la Natura, nel suo lento e placido cullarsi, non riusciva a stare al passo. Aveva un suo caos interiore a cui non poteva aggiungersi anche quello esterno. Mantenere una stabilità fra le due forze era sempre più difficile, e sempre più necessario. Sapeva bene che molti, fra gli umani, erano convinti che l’aumentare di catastrofi Naturali fosse volere di Dio. Rideva di pietà a quelle tristi congetture. Non riuscivano a capire che dipendeva solo da loro: più prendevano, più la Natura pretendeva. Era un alternarsi di forze, ognuna convinta della propria superiorità e ognuna ignara dell’altra. Perché l’uomo era incosciente e la Natura cieca; e questo non sarebbe mai cambiato.

La Senza Nome camminò sotto l’acqua a lungo, in attesa che i conti tornassero. Era ancora presto; c’era tempo. Eppure c’era qualcosa che non andava. Si sentiva inquieta, guardinga, braccata. Lei, al di sopra di uomini e cose, aveva la netta sensazione di essere sotto lo scrutinio di qualche predatore crudele, alla stregua dell’ultima delle bestie.

La consapevolezza di essere diventata davvero una preda la colpì prima ancora della bastonata. Cadde a terra e ruzzolò nell’acqua scrosciante fra le risate degli sconosciuti. Li riconobbe dalle risate: ragazzini, cuccioli di uomo appena alla soglia della pubertà. Cuori di pietra, per lei impossibili da sentire. Anime di carta appese a fragili fili che non attribuivano alcuna importanza a niente. Menti irrequiete e folli, a girare in tondo nel dubbio e nell’angoscia come animali in gabbie troppo strette, presentendo la morte. I parti più caotici e disperati dell’uomo erano lì, la sovrastavano coi loro bastoni, e le ridevano in faccia con un misto di divertimento e ribrezzo. La Senza Nome non era umana né ne aveva l’aspetto: aveva una faccia aguzza e volpina, dalla pelle liscia e umana su cui, però, spiccavano grandi occhi di gatto. Uno di loro gridò: “Mostro!”, e fu l’unica parola che capì.

La Senza Nome sentiva le proprie fragili ossa frantumarsi un calcio dopo l’altro; sentiva la sua carne aprirsi e la pioggia che lavava le ferite di quel corpo troppo delicato per il tocco di un essere umano. Era come un filo d’erba strappato alla terra; un fiore a cui crudelmente, lentamente, si strappano tutti i petali. I bambini risero finché il più grande, isterico ed eccitato dall’odore del sangue e dalla violenza di quella pioggia, non tese di nuovo il bastone; prese la mira, sollevò il bastone sopra la propria testa. La Senza Nome lo guardò. Pensò febbrilmente, voracemente, aggrappandosi all’ultimo scampolo di lucidità che le era rimasta, che all’uomo serviva la Natura per sopravvivere; l’uomo, però, non serviva alla Natura. Perché era nata per mediare una guerra così impari? Chi l’aveva creata? Perché non lasciare che la pioggia spazzasse via tutto, una volta e per sempre?

“Torna al circo, mostro.”

Il bambino colpì. Aveva intenzione di abbassare la mazza più volte, ma la prima era bastata ad aprire la testa della Senza Nome come un frutto troppo maturo. Risero, orripilati ed estasiati, mentre la pioggia entrava in ogni ferita e ne usciva portando con sé viscere, brandelli di ossa, pezzetti di cervello. Pian piano, l’intero corpo della loro vittima scivolò via e rimasero a guardarla senza smettere di ridere. Erano giovani, erano vivi; quella pioggia lavava ogni misfatto, non avevano colpe; erano puri, innocenti, forti della loro unione; sentivano che, nell’eliminare il mostro, avevano fatto giustizia. Avevano protetto il proprio mondo e si sentivano meravigliosamente appagati.

Smisero di ridere quando si sollevò il vento. L’acqua li travolse come un’onda in mare aperto. Li disperse uno ad uno, trascinandoli in direzioni diverse. L’acqua li prese con calma, uno alla volta, finalmente libera dai legacci del Mediatore. Sparirono per sempre, trascinati dall’acqua insieme alla loro vittima, e sulle strade non rimase alcuna traccia del loro passaggio. La pioggia rise con uno scrosciare di lampi: non c’era più nessuno a fermarla.

Da qualche parte, in un luogo lontano, stava nascendo una nuova Senza Nome. Ma aveva bisogno di tempo, la piccola. Tempo che la pioggia decise di sfruttare a suo piacimento. Ruggì di nuovo, facendo tremare le strade. Era l’occasione giusta per mettere in pari un po’ di conti lasciati in sospeso.

Daniela Montella