La separazione

Da Marcofre

Ogni volta che il narratore onnisciente adotta lo stesso linguaggio dei personaggi, un’opera narrativa perde tensione e cala di tono.

Lo scrive Flannery O’Connor. Si tratta di quel tipo di frasi che di solito si leggono, e poi mesi dopo, si rileggono e ci si rende conto che contengono parecchia verità. Sembra essere una questione da poco, ma è una delle ragioni che separa uno che sa scrivere, da uno scrittore.
La voce di chi racconta e dei protagonisti deve essere differente. Ovvio?

Non credo. Il linguaggio dei bambini non può certo essere come quello degli adulti, (ma pochi se ne rendono conto, o meglio: pochi si prendono la briga di adottare un altro linguaggio), e uno degli aspetti più difficili da rendere sulla pagina è proprio il mondo infantile.

Charles Dickens, o Stephen King, sono tra coloro che ci sono sempre riusciti bene.

E io, ci sono riuscito? Temo di no, ecco il motivo grazie al quale nessuno si dimostra davvero entusiasta di quello che produco. Avere una buona scrittura non è sufficiente, anche se è uno dei pregi che la pagina deve avere.

Scrivere è un altro paio di maniche.

Riuscire a separare se stessi, dalla materia che si è chiamati a lavorare, è un’impresa titanica. Forse è per questa ragione che nessuno ci bada. E così si ritiene che non esista affatto questo problema. Ma ignorare una cosa non rende quella cosa meno importante, oppure inesistente.

E se dovessi indicare come riuscire in una tale separazione, ebbene, non sarei in grado di fornire un consiglio adeguato.

Leggere? D’accordo, ma qui è necessario dell’altro. E questo altro (il talento) non si può rubarlo dai libri. O ce l’hai, oppure no.


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