La serie Netflix Narcos è diversa da qualsiasi cosa sulla droga. Devi vederla.

Creato il 18 marzo 2016 da Retrò Online Magazine @retr_online

Le volte che sento narrare delle imprese – e delle atrocità – dei cartelli, rimango a mia sorpesa affascinato. Un po’ come quando ho sentito il death metal per la prima volta: sentirlo è una merda violenta – cacofonica -, può piacere solo ai disadattati e ai pogoman, eppure arriva un punto nel quale la doppia cassa combacia perfettamente con quella shreddata di chitarra elettrica e quella violenza sonora, improvvisa, diventa poesia urbana.
Questo perverso innamoramento mi è successo di nuovo, qualche settimana fa. Era un sabato pomeriggio uggioso, avevo esaurito le puntate di Big Bang Theory ed ero alla ricerca di una serie tv con cui ingozzarmi per le successive 30 ore. La pubblicità di Narcos, seducente, carpisce i miei sensi e dopo nemmeno dieci minuti ero abbonato a Netflix e stavo guardando la prima puntata.
Non giunse la sera di domenica, che io avevo già finito la prima stagione di Narcos.

Dio, che ottima serie.

Chris Brancato, Carlo Bernard e Doug Miro hanno fottutamente fatto centro. L’idea originale era quella di girare un film documentario che narrasse delle gesta di Pablo Escobar. Quando si accorse che il film sarebbe durato 10 ore, Brancato si recò negli uffici di Netflix e concluse uno dei migliori accordi di produzione della sua carriera.
La prima stagione di Narcos conta 10 puntate da circa 50 min. ciascuna. La serie narra dell’ascesa – la seconda stagione parlerà della “discesa” – del Padrino di Colombia, il leggendario Pablo Escobar (Wagner Moura) e degli agenti della DEA (Boyd Holbrook, Pedro Pascal ) che cercano di dargli la caccia.

Il ritmo delle puntate è veloce e incalzante, si sente la scrittura fresca e cruda di José Padilha (Elite Squad). Va riconosciuta inoltre, e soprattutto, la coerenza storica fra ciò che realmente è successo e ciò che Narcos racconta, senza troppi fronzoli o escamotage narrativi.
La serie racconta con precisione come i laboratori della cocaina si spostarono dal Cile e trovarono la loro fortuna in Colombia. Racconta dell’intreccio creatosi in Sud America tra la lotta armata comunista e i narcos. Mostra come il cartello di Cali e quello di Medellin consumavano sangue e fatiche per una guerra volta a conquistare il monopolio del traffico di droga. Narra di come Pablo Ernesto Escobar Gaviria non fosse un semplice criminale ma icona sociale, politica e culturale. Ed è questo che Narcos riesce a conquistare, persino laddove altri grandi film sulla droga avevano fallito: la veridicità della narrazione e la complessità del contesto.

Photo credit: bump key therapy via Foter.com / CC BY

Scarface e Blow sono i primi titoli relativi al commercio di coca che vengono in mente allo spettatore medio, come me. Famossissimi entrambi grazie alle intramontabili interpretazioni di Depp e Al Pacino. Entrambi i film si concentrano su alcuni aspetti frivoli e superficiali che vertono sull’individualità del protagonista, spesso incentrati sui lussi ottenuti con i soldi del narcotraffico. Macchine, soldi e gnocca, robe così. Sia Tony Montana che George Jung – entrambi operanti (chi davvero e chi solo in fiction) negli anni 80 – fungevano da distributori. La coca partiva dalla Colombia e tramite alcuni uomini chiave arrivava sulle coste statunitensi (Miami, New York e San Francisco), fino a raggiungere i centri nevralgici europei.

Solo che i gringos che lavoravano per i cartelli venivano giudicati da ogni parte in maniera negativa. Dagli americani venivano definiti criminali. Per i narcos colombiani erano pulci scroccone, semplici pedine. Non a caso i film che conosciamo sul narcotraffico sono fortemente intrisi di un moralismo imposto da Holliwood, per il quale anche se per tutto il film abbiamo pensato che il protagonista oltre che un narcotrafficante fosse un personaggio figo e tutto sommato rispettabile, entro l’ultima scena viene quasi visto come compito della produzione farci cambiare idea. Il narcotrafficante è un criminale e deve sembrarlo. Deve venire punito oppure morire ucciso dal suo stesso mondo.

Tutto cambia, il mondo cambia, le politiche proibizioniste iniziate con Reagan ci sembrano sempre più ridicole e da fine degli anni novanta, la droga e il suo commercio non è più un problema circoscritto ai luoghi del crimine ma è un fattore (non problema, ho detto bene: “fattore”) sociale. E con il muoversi delle assiologie e della storia deve far i conti anche la morale di hollywood.

Le cose iniziano a traballare con l’avvento di Walter White in Breaking Bad. Improvvisamente la storia di un professore di chimica sfigato e con il cancro sembra la cosa più figa e trasgressiva che ci sia. Soprattutto, c’è un ribaltamento morale nella storia e nella costruzione dei personaggi. Anche quando Walter fa cose cattive, è mosso in prima istanza da buone intenzioni e dalla volontà di proteggere la sua famiglia.
Breaking Bad spiazza lo spettatore perchè le persone non sanno cosa pensare di Walter, quindi continuano a guardare la serie, sperando di riuscire a formulare un giudizio entro la fine della stagione.

Narcos fa un passo ancora in avanti: sposta il setting della storia. Non più la sfavillante america degli anni ottanta, ma la povera Medellin. L’america latina ha quasi una latenza storica di 40 anni sugli Stati Uniti e cercare di immaginare come le persone vedessero Pablo Escobar cambia molto a seconda se ci immaginiamo un impiegato di Wall Street o un contadino colombiano. Narcos presta attenzione a questo aspetto e rimane coerente con la storia del personaggio e del territorio.
Una battuta mi ha colpito particolarmente, pronunciata dalla moglie di Escobar durante un esilio per sfuggire dalla polizia: “Qui a Panama siamo solo dei criminali che fuggono. In Colombia siamo qualcuno.”
Ecco, questa frase racchiude la complessità che si viene a creare attorno a un personaggio come Escobar in un territorio così diverso dagli USA. Cosa succede quando un ragazzo povero come tanti altri ragazzi colombiani si fa strada nel mondo del contrabbando e della vendita illegale, fino a fiventare a trent’anni uno dei 9 uomini più ricchi sulla terra? Il tutto grazie all’esportazione internazionale del suo prodotto originale: cocaina. Pablo Escobar potrebbe venir definito il precursore delle start up se si pensa ai fortissimi trend di crescita e ai brevissimi tempi in cui sono stati raggiunti certi volumi di vendita.

Pablo viene visto dalla sua gente come un eroe nostrano. Viene trattato come un Re e gli vengono concessi onori da grande personalità. Pablo è un leader oltre che un boss.

Pablo tenta quindi di entrare in politica per migliorare la condizione del paese, regala soldi ai poveri, lotta – a modo suo – per la sovranità della sua nazione contro quindi l’estradizione in America e l’influenza statunitense sull’America Latina. Quando viene catturato dalla polizia colombiana è il presidente di Colombia a riceverlo per accordarsi sulla costruzione della Catedral, la prigione personale che Pablo si costruisce da solo.

Ciò che affascina di Narcos e della storia del Re dei narcotrafficanti è proprio l’atmosfera di riscatto sociale e di rivalsa sul sistema che aleggia durante ogni puntata. Narcos è la storia di una Colombia in ginocchio che tenta di rialzarsi in ogni modo ma non ci riesce, schiacciata dalla povertà e dall’invadenza delle politiche estere statunitensi. Una Colombia così allo sbando, priva di una classe politica lungimirante, che nelle strade si affida a un uomo come Pablo Escobar, simbolo di fortuna, determinazione e coraggio. In questo Narcos è il miglior prodotto che io abbia mai visto relativo al traffico di droga, perché riesce a mostrare la complessità di un fenomeno, che ormai fa parte della nostra storia e della nostra cultura.

Che Escobar sia una storia lodevole? Forse sì, forse no. Nulla è più riprovevole dell’uso della violenza per ferire (o peggio uccidere) altri esseri umani. Al tempo stesso nulla è più da ammirare che la capacità di costruire un impero partendo da zero.

Voi direte, non vale costruire gli imperi sulla vendita di sostanze illegali.

Pablo vi risponderebbe che una sostanza è illegale solo quando ti beccano venderla. 

Io aggiungerei che se lo sciocco proibizionismo di Reagan non fosse mai esistito, Pablo Escobar – per come lo ha conosciuto la nostra storia – forse nemmeno.

Tags:cocaina,Dea,Narcos,netflix,Pablo escobar,recensione

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