La servitù accettata.
Creato il 03 agosto 2013 da Gianna
Il più grande ostacolo all’emancipazione del proletario
risiede in se stesso. Il vero disastro per l’operaio è la sua arrendevolezza
nei confronti della propria miseria, il suo modo di adattarsi e consolarsi
della propria impotenza. Eppure l’esperienza gli ha ben insegnato che non può
attendersi nulla dal sistema che l’opprime e che non potrà uscirne senza lottare.
Ma preferisce continuare a sfogarsi a vuoto e a rivestire la propria passività
di apparente collera. Il fatalismo e la rassegnazione dominano nei ranghi
operai. È chiaro, ci saranno sempre i padroni, che del resto ci sono sempre
stati; non c’è granché da sperare quando si è nati dalla parte sbagliata della
barricata. Certo, capita che il proletario si irriti e non accetti più una
situazione che giudica insopportabile. Ma lo fa per mettere a punto un piano
d’azione? No! Non potendo raggiungere quelli che prosperano alle sue spalle,
scarica il proprio risentimento su quelli che incontra all’angolo della strada;
sui piccoli malavitosi, sugli arabi e gli altri stranieri. Gli sembra quasi di
mantenerli. Per le stesse ragioni ce l’ha con la sua donna e i suoi figli, se
non gli danno le soddisfazioni che si aspetta e non compensano il suo
sentimento di inferiorità sociale con un matrimonio impeccabile e buoni
risultati scolastici. L’impiegato si smarcherà con orgoglio dall’operaio che
s’insudicia le mani e in cambio sarà disprezzato come un parassita
imbrattacarte. Il sindacalizzato si sentirà superiore a chi non lo è ancora ma
che deve aiutare ad acquisire una coscienza. In cambio gli offrirà un facile
argomento di battute. Anche quando non si è inaridito, incapace di riconoscere
quel che c’è di buono nella vita e la sua parte di possibilità il proletario
resta prigioniero del suo limitato modo di vivere. Accetta la propria servitù
fino al punto di riconoscere, a una certa età, che le cose miglioreranno progressivamente
e che i giovani scontenti dovrebbero saper apprezzare le «conquiste» acquisite.
Esiste un sentimento comunemente condiviso dai proletari di tutti i paesi. Non
è l’internazionalismo, bensì la sensazione che altrove le cose potrebbero
essere peggiori… Tanto vale non schiodarsi dal proprio posto, dato che è
vicino, e per lo stesso lavoro… Nella disgrazia generale, il lavoratore ha
almeno la consolazione di aver trovato un rifugio. Il lavoro resta la migliore
delle polizie. Tiene ciascuno a freno e ostacola potentemente lo sviluppo della
ragione, dei desideri, del gusto per l’indipendenza, dato che consuma una
straordinaria quantità di forza nervosa sottraendola alla riflessione, al
fantasticare, all’amore; facendo balenare di continuo uno scopo meschino e
assicurando soddisfazioni mediocri ma regolari. Così una società in cui si
lavora duro avrà maggiore sicurezza: e oggi la sicurezza viene adorata come una
divinità. Ci sono ancora imbecilli che onorano la ripugnante attività e non la
rifuggono spontaneamente. Colui che giorno dopo giorno mina la propria salute
potrà essere fiero dei suoi bicipiti e si rallegrerà di non aver più bisogno di
fare sport per essere in forma. In certe fabbriche domina una vera e propria
mentalità olimpionica. Il salario a cottimo e i premi non sono nemmeno
necessari affinché ciascuno ricerchi il suo piccolo record. Con aperto
disprezzo o paternalismo per chi non è capace o se ne infischia. Tuttavia è
sempre più difficile credere alla reale utilità di ciò che si fa; l’indifferenza
e perfino il disgusto nei confronti del lavoro guadagnano terreno. Eppure chi
smette di lavorare spesso non si sente a posto con la propria coscienza. Malati
o disoccupati, molti hanno paura di non essere all’altezza, si vergognano di
lasciarsi andare. Colui che si misura nel lavoro è convinto di provare a se
stesso di non essere uno scarto e di possedere una utilità sociale. Qui si
tocca con mano il carattere fondamentale della miseria proletaria: senza lavoro
la vita non ha più consistenza, non ha senso né realtà. Non è l’interesse per
il proprio compito a riportare al lavoro, è piuttosto la noia, oltre al bisogno
di un salario. La routine della vita quotidiana può far pensare che l’accesso
al dopo-lavoro o perfino la disoccupazione siano una liberazione. Bisogna
diventare disoccupati o pensionati per constatare il contrario. La pensione o
la disoccupazione sono il lavoro al grado zero. La miseria moderna non si
esprime attraverso la mancanza di svaghi o la penuria di beni di consumo, ma
con la separazione di tutte le attività, la frammentazione del tempo,
l’isolamento degli uomini. Da un lato, un’attività produttiva spesso
forsennata, polverizzata, dove le necessità produttive del capitale fanno
dell’uomo la carcassa del tempo, strumento fra gli strumenti. Dall’altro lato,
il tempo libero in cui l’uomo presume di appartenersi ma dove, addomesticato
dall’educazione e abbrutito dal lavoro, è privato di tutto dal bisogno di
pagare. Il consumare e soprattutto i sogni consentiti dal consumo restano
l’ultima consolazione. L’operaia, la commessa o la segretaria, oltre al tempo
dedicato a guardare le vetrine e alla lettura di fotoromanzi, impiegano la loro
vitalità a innalzare il proprio rango sociale attraverso visibili sforzi
dedicati alla propria immagine. La «femminilità» potrà essere pienamente
soddisfatta grazie ai miracoli dei più disparati prodotti a disposizione. Il
desiderio d’essere considerata e l’adesione sottomessa alle rappresentazioni
servili della donna si mescolano per meglio beffarla sulla realtà del suo
destino. La «famiglia» operaia accarezza l’idea di quella piccola casetta di
periferia che un giorno le apparterrà e che «sarà finalmente casa nostra». Ma
prima di tutto c’è l’automobile. Si sogna di comprarla, di cambiarla. È la
misura della ricchezza e del saper-vivere, e fornisce un inesauribile argomento
di conversazione. Anche se l’operaio preferisce confidare al barista i guai che
ha con sua moglie o mostrargli le foto dei figli, il garagista rimane il suo
autentico confidente. Spesso l’operaio si mostra diffidente nei confronti della
politica, ma assai raramente rivolge critiche alla politica e ai politici.
Inorgoglito dall’importanza momentanea che gli viene accordata ed eccitato dal
lato sportivo della faccenda, non rifiuta di volta in volta di andare a deporre
la sua scheda elettorale. Basta che il vento dell’«Unione» ricominci a soffiare
affinché tutte le sue illusioni apparentemente sbiadite si ravvivino. Poco
importa che la sinistra abbia regolarmente tradito le speranze che la masse riponevano
in essa, che i socialdemocratici abbiano spedito in guerra nel 14, partecipato
ai peggiori compromessi borghesi, appoggiato la repressione coloniale. Quanto
ai presunti comunisti, non appena arrivano al potere fanno peggio che
abbandonare la difesa degli interessi operai: chiedono di lavorare duro e non
esitano a reprimere fisicamente il proletariato come a Kronstadt, a Barcellona
o a Budapest. Ma che ne sa l’operaio della storia delle lotte proletarie? Della
Comune di Parigi, della rivoluzione russa, degli scioperi sotto il Fronte
Popolare, non conosce che i santini che gli apparati politici e gli istitutori
della sinistra hanno elaborato a suo uso e consumo. Se aderisce ad un partito
stalinista, il «lavoratore» denuncerà i profitti abusivi dei monopoli e le
speculazioni vergognose dei promotori immobiliari. Ma non gli passa per la
testa di capire cosa siano veramente il profitto e la funzione del padrone. Non
vedrà che furti, parassitismo, abusi delle «duecento famiglie», e non certo le
funzioni economiche che soprattutto si dovrebbero liquidare fin dalle
fondamenta: capitale e salariato. Non appena si tratta di un paese modello e
socialista, Svezia o Cuba dipende dai gusti, quei profitti, quei fasti, quegli
uffici sontuosi, quei villini al servizio del popolo gli sembreranno subito più
onesti. Che un qualsiasi grasso burocrate sia un «dirigente operaio», e il suo
stile di vita diventerà un esempio di dignità operaia. Nei paesi in cui il
proletariato esercita la sua dittatura, quale non deve essere la soddisfazione
dell’operaio – la mattina, quando arriva in fabbrica e alza il caschetto
davanti al caposquadra – nel sapere che di fatto è lui il proprietario della
sua impresa, e in fin dei conti il superiore dei suoi superiori… Il nemico del
proletariato non è tanto il potere dei capitalisti o dei burocrati, quanto la
dittatura delle leggi dell’economia sui bisogni, sull’attività e sulla vita
degli uomini. La contro-rivoluzione moderna è imperniata sulla difesa della
condizione proletaria e non sulla salvaguardia dei privilegi borghesi. È in
nome del proletariato e delle esigenze economiche, con l’aiuto dei suoi
rappresentanti politici e sindacali, che si cerca di salvaguardare la società
capitalista.
Tratto da: http://www.italianinsane.info/2013/la-servitu-accettata/
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