La sindrome di Down: come si fa ad abortire?

Da Sulromanzo

Vorrei raccontarvi una storia. Utile, spero. Ho chiesto a lui di poterlo fare, prima di scrivere.

All’inizio del 2012 ricevo un testo inedito da un signore, il quale, per motivi subito oscuri, dopo uno scambio di opinioni attraverso la mail, mi chiede di poterci parlare su skype con la webcam entrambi e non con il telefono. Accetto. Non comprendo la richiesta, ma accetto. Una sera di gennaio, solo a casa e sono quasi le nove, orario dell’appuntamento. Mi compare di fronte un viso di primo acchito bonario, chiedo: «Perché su skype e non il telefono? Ho percepito una certa insistenza, o sbaglio?». Fabio – il nome è di fantasia – mi spiega il suo problema di udito, grazie a uno strumento integrato con il pc riesce a sentire abbastanza bene, facendosi aiutare anche dal labiale. Un istinto discreto mi permette di passare ad altri argomenti, pensando che non gli faccia piacere evidenziare il problema, argomentandolo (quante volte gli accade con le persone?). Le singole reazioni alla malattia generano fantasmi dissimili nelle persone, con quale stato di (in)certezza avrei potuto interagire con uno sconosciuto, allorché avessi percepito di trovarmi in un terreno friabile? Gli chiedo così di accennare alla ragione per la quale il tema dei figli Down lo interessi, è evidente da una sua mail di qualche giorno prima.  

«Mio figlio è Down, ha sei anni…», risponde.  

L’istinto discreto non può più sorreggermi, devo indagare, perché, a quanto sembra, lo sto leggendo, il suo romanzo inedito possiede come fulcro la storia di un padre e di suo figlio malato. Mi sento abbastanza inerme, non è un argomento che conosco bene. Le mie uniche esperienze con la sindrome di Down riguardano un ragazzo che viveva nel paese vicino al mio, quando, bambino delle elementari, io, già adulto ai miei occhi, lui, rincorreva tutti con modi minacciosi, urlando e ridendo; se ancora oggi sento un brivido alla schiena ogni volta che incontro una persona Down è per un ricordo infantile, con il tempo, mentre prima reagivo nelle emozioni e la razionalità era al muro, ho imparato a scrutare la reazione istintiva con un certo distacco, avendo capito l’origine.

Il signore mi mostra la foto di suo figlio, me ne parla con orgoglio e gioia, senza tuttavia nascondere le difficoltà quotidiane. Non posso fare a meno di sorridere quando Fabio mi racconta le incomprensioni e gli scherzi fra i due: uno urla e l’altro non sente, il primo urla di più e l’altro, pur avendo capito, fa finta ancora di non sentire. La bellezza di sdrammatizzare talvolta è miracolosa nelle avversità.  

Le chiacchiere si spostano sulla gravidanza della moglie e nella scelta mancata di eseguire il test della villocentesi al tempo. Non c’erano condizioni per le quali preoccuparsi dai risultati delle ecografie, così era stato detto alla coppia dal medico e il fatto che la moglie avesse trentatré anni non la faceva rientrare nella categoria di età materna avanzata: c’era un costo da affrontare non indifferente e i soldi non c’erano. Più avanti nelle settimane stesso discorso per l’amniocentesi, il pensiero di farla c’era, ma mancava il denaro.

«La situazione era grave dal punto di vista economico, mia moglie era a casa in maternità e io avevo perso il lavoro tre settimane dopo che avevamo scoperto la dolce attesa…»

Nella mia stupida ingenuità chiedo: «Non vorrei sembrarti inopportuno, ma i vostri genitori?»  

Fabio mi fa capire che i suoi sono morti entrambi, mentre i rapporti della moglie con suo padre e sua madre si sono interrotti da tempo.

Avete di sicuro presente quando nella testa, in rare occasioni, titillando all’inizio poi palesandosi con un unico concetto, rimbomba forte e chiaro: che sfiga. Più che terreno friabile sono nelle sabbie mobili. Mi pare di non avere parole dignitose, frasi appropriate e ho il terrore che Fabio possa cogliere dal mio viso quanto sto pensando. Quando mi trovo al muro, davvero al muro, cambio atteggiamento, divento ardito, dimentico la discrezione nel rapporto con gli altri. Non ho mai capito la logica interna che sottende il mio comportamento.

«Non vorrei sembrarti nuovamente inopportuno, e chiariamo subito che non sono un medico, quindi il rischio è che dica delle sciocchezze… avendo tu un problema di udito, forse non era il caso di approfondire, cioè trovare la strada economica per fare altri test?»

«Dato che si è creata una certa confidenza, Morgan, ti posso dire senza problemi che io non sono il padre biologico…»

Oh Madonna mia, penso. Non è possibile, chiamarla sfiga mi sembra un eufemismo. Una situazione incredibile per la quantità di ostacoli.

Ardito, ancora. Io.

«Non oso immaginare, non dev’essere stato facile per te accogliere a braccia aperte con amore tuo figlio…», alludendo con orribile e malcelata discrezione al nodo della vicenda. Avete presente quando nella vita dopo pochi secondi dall’avere pronunciato una frase pensate con ostinazione di avere perso un’ottima occasione per stare zitti?

Fabio è una persona intelligente, capisce che ha stimolato in me la curiosità, la quale, beata lei, erompe da me sgangherata stasera. Ne sono consapevole. Non posso sorridere, è lì davanti a me, non posso sorridere. Non c’è nulla da ridere, eppure vorrei nascondere il mio disagio ridendo. Non rido. Immobile. Non muovo ciglio. Fingo di dominare la situazione.

«Avessimo saputo con un test la malattia di nostro figlio forse si sarebbe pensato a un aborto, boh!»

«Aborto?», domando.

«Sì».

Non mi sono mai chiesto con serietà se l’associazione aborto e sindrome di Down possedesse per me un significato peculiare, certo è che Fabio mi costringe a scandagliare i miei sentimenti e non solo a riguardo; incrocia le braccia di fronte ai miei occhi, accenna un sorriso e mi chiede a bruciapelo: «Tu, non so se hai figli, che cosa faresti dopo avere scoperto durante la gravidanza di avere un figlio Down?»

[Continua domani, sabato 25 agosto]

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