Le diseguaglianze nel mondo crescono vertiginosamente. Cresce la voglia di confrontare e perequare. Ma i più deboli non possono accorciare le distanze. Nel ricatto permanente dei capitali mobili del mondo globalizzato, il conflitto sociale è marginalizzato. Si può solo rispondere ai referendum espliciti o impliciti modello Pomigliano: “scegli di aver meno o di aver niente?”. Si sceglie di aver meno. E chiedere ai più forti di contenersi. Fino a un certo punto. Non potendo contraddire il mercato e i prezzi che esso determina. Ci si può rammaricare, si possono esibire sensi di colpa, si può fare beneficenza . I ben pagati conduttori di talk show, affrontando il tema della povertà, avvertono la pressante esigenza di confessare: “Io che povero non sono” oppure “Io che non ho difficoltà a pagare l’Imu”. Qualcuno, più coraggiosamente per i tempi, ricorda che i suoi proventi sono largamente ricompensati dagli incassi pubblicitari. Ovvero pone sul tappeto il dilemma: mercato o cosa? La sobrietà come perequazione dall’alto La sobrietà ha almeno due interpretazioni. Per la prima la sobrietà è la rinuncia, spontanea o imposta, ad un surplus di reddito, da lasciare allo Stato, all’azienda o da destinare ad opere caritatevoli, come si sarebbe detto una volta. La richiesta di sobrietà si è rivolta inizialmente e soprattutto alla politica. E’ stato il segno di una svalutazione della qualità e del significato dell’agire politico. I riflettori sono puntati sui cosiddetti costi della politica. Parte dei politici contesta l’ondata di piena, vuoi per ovvia convenienza, vuoi per ragionevole timore che il populismo anti-casta travolga le stesse istituzioni. Parte prende atto della domanda di sobrietà e si adegua. Si apre una gara a ridursi retribuzioni e prebende. Monti rinuncia alla retribuzione di primo ministro. I presidenti delle Camere appena insediati ritengono che l’autolimitazione di retribuzione e accessori (alloggio) sia il primo progetto da esibire. Fuori dal palazzo, la pratica dell’autolimitazione, ha precursori illustri negli Usa fra i più grossi magnati. I Gates e i Buffet, supermiliardari, che decidono di devolvere il 50% dei profitti in favore di fondazioni benefiche e promuovono l’adesione degli altri fortunati a tale iniziativa, oltre che denunciare la debole progressività del sistema fiscale. Il nostro Diego Della Valle annuncia invece che devolverà l’1% dei profitti ad opere sociali. Gli resterà solo il 99%. Ai manager pubblici è facile ovviamente imporre riduzioni e sobrietà (relativa). Ai manager privati, benché assai più remunerati dei pubblici, nulla si può imporre. Ma l’onda di piena induce i più generosi all’autolimitazione. Qualcuno ritiene di poter fissare da solo la giusta misura della propria retribuzione. Herbert Stepic, numero uno della banca austriaca Raiffeisen, ad esempio, ritiene “ingiusto essere remunerati in modo sproporzionato”. Restituendo alla banca 2 milioni di euro, ritiene giusta la retribuzione pari a soli 3 milioni di euro annui. Sfugge ovviamente la natura del calcolo da lui operato. Comunque bene. Mostra saggezza. C’è chi pensa che il denaro, oltre a una certa soglia, sia del tutto inutile. Utile al più come segno di riconoscimento. Il mercato e il buon senso però celebrano così il loro divorzio. La sobrietà come nuova estetica L’altra interpretazione è estetica. Non si rinuncia a ciò che la legge o il mercato di assegnano. Non si rinuncia alla ricchezza. Si rinuncia alla sua esibizione. Tornano i miti degli imprenditori austeri, tutti casa e lavoro che molti italiani mostrano di preferire ai neo ricchi e ai Briatore che con i futili consumi di champagne e barche, secondo l’indomabile Italia dei berlusconiani (per dirla semplice) darebbe tanto lavoro a camerieri e ragazze immagine. Naturalmente – ma è un dettaglio – secondo la vulgata berlusconiana solo la ricchezza e i consumi degli imprenditori sarebbero fonti di lavoro. Mai – Dio ci scampi – i redditi e i consumi di Saviano o di Fazio. L’esempio dall’altro mondo In qualche caso infine la sobrietà appare il segno di un mutamento antropologico. Etico sì. Estetico anche. Ma spontaneo come una conquista, la rinuncia a sprecarsi col superfluo. L’esempio evidente, la proposta di un nuovo francescanesimo, ci viene da l’altro mondo di Papa Francesco. Il Papa che rinuncia ai paramenti e alla distanza, fisica e del linguaggio, che prima erano i segni distintivi del potere. Dall’altro mondo viene l’esempio dello sconosciuto presidente uruguaiano Josè Mujica. Lerner ne parlò nella puntata di Zeta dello scorso 9 marzo. Nella stessa puntata un teorico della sobrietà felice quale Petrini, il fondatore di Slow Food, per l’ennesima volta esibiva i conti dello spreco immane del cibo e dell’acqua. ¼ del cibo sprecato e buttato fra le immondizie . 1/3 di quello basterebbe a sfamare gli 860 milioni di affamati del mondo. E intanto ogni anno 36 milioni di uomini muoiono per fame e 29 milioni per eccesso di cibo. La modernità delle tecnologie più sofisticate non saprebbe però come trasferire il surplus verso gli affamati. Non appare possibile soluzione diversa che consentire a chi ha fame di frugare fra i bidoni di immondizia ricchi di cibo e di tutto. Mujica, appunto, era l’altro protagonista della trasmissione. E’ un ex marxista e guerrigliero tupamaro, eletto nel 2009 alla presidenza del suo paese. E’ un uomo normale, bruttino e privo di quello che chiamiamo fascino. Infatti per i media, diversamente da Papa Francesco, non fa notizia e ascolto. Non ha neanche la fascinazione oratoria dei grandi populisti sudamericani. Le sue prime parole di eletto: le scuse all’avversario, così evidentemente sincere, per aver ecceduto nel linguaggio in campagna elettorale e avergli creato “infelicità”. Mujica preferisce rinunciare alla maggior parte della sua retribuzione, accontentandosi di 800 euro mensili. Perché non c’è motivo di guadagnare più di un operaio. Ma anche perché non saprebbe cosa fare del denaro. Lo vediamo con la sua vecchia auto nel piccolo garage. E sentiamo che è la proposta incarnata avversa al mondo della bulimia e delle carestie, per un altro uomo, un altro mondo, un’altra felicità.
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