La società civile che ti fa morire di violenza organizzata dal sistema

Creato il 16 gennaio 2014 da Vesuviolive

Vincenzo di Sarno è un uomo di 35 anni e si trova in prigione nel carcere di Poggioreale da 4 anni, per aver ucciso un extracomunitario mentre aspettava un bus a Piazza Garibaldi, una tragica degenerazione di una lite. Da uomo alto un metro e 85 per 115 chilogrammi, adesso si è ridotto a pesarne soltanto 53 a causa di un tumore cervico-midollare, e la sua storia sta facendo notizia in quanto in una lettera al Presidente della Repubblica ha chiesto che gli sia concessa l’eutanasia, perché non vuole morire in carcere.

I due interventi cui è stato sottoposto non sono serviti a farlo guarire né a migliorare la sua condizione, infatti ha bisogno di continue cure che non possono essergli somministrate in modo adeguato, neppure ora che è stato trasferito nel padiglione San Paolo del carcere. Mentre egli chiede la morte dolce, la madre è preoccupata perché Vincenzo non mangia non sapendo se lo faccia per protesta o a causa della malattia che lo rende inappetente, e chiede a Giorgio Napolitano la grazia affinché non capiti a lui ciò che è successo a Federico Perna, il quale morì in una prigione sovraffollata nonostante fosse malato della pericolosa e contagiosa epatite C. Inoltre l’autopsia sul corpo di Federico venne fatta ben 6 giorni dopo la morte e dalle foto che ne sono girate sono emergono ombre sul suo caso, tanto che la madre ipotizza che sia deceduto a causa di maltrattamenti.

L’ordinamento italiano fa propria la lezione del grande illuminista Cesare Beccaria, che ne Dei delitti e delle pene  afferma che “il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso… il fine dunque non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali” (par. XII), e infatti il comma terzo della Costituzione Italiana recita: “Le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, e cioè che la pena non ha uno scopo meramente inflittivo bensì principalmente pedagogico, orientato al reinserimento del condannato all’interno della società, in modo che possa essere a essa utile.

È facile dire che non bisogna curarsi poi tanto di persone che si trovano in stato di reclusione perché hanno fatto qualcosa di cattivo, ed è facile sentire commenti esultanti di fronte a notizie sulla disumanità delle carceri italiane che è subìta, ed è bene ricordarlo, non solo dai detenuti ma dagli stessi agenti della Polizia Penitenziaria: una cosa è lavorare in un carcere “normale”, un’altra è lavorare in uno sovraffollato e carente di servizi. Il Beccaria dava quella lezione al mondo più di 250 anni fa, una lezione di umanità e civiltà, che oggi è nella pratica completamente disattesa. Viviamo in uno Stato che si comporta da fuorilegge (non solo per il problema delle prigioni, ma qui dovremmo aprire troppi discorsi e non è questa la sede per farlo) e in cui tanti cittadini hanno idee barbare circa la funzione delle pene e la condizione in cui dovrebbero vivere i detenuti. Come si può pretendere che un reo cambi se sopporta delle condizioni di vita animalesche che si aggiungono alla già dura privazione della libertà? Come si può pretendere che cambi se la società lo lincia come un lebbroso? Come possiamo definire la nostra una “società civile” se godiamo o siamo indifferenti di fronte alla violenza organizzata e legalizzata del sistema?

L’educazione è la sola possibile via d’uscita.


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