Ed è normale: le ho incontrate tutte e tre in momenti nei quali non ero tanto un lettore, quanto uno studente, a scuola o all'università. Queste opere si sono alternate ad altre, ma su queste pensavo che in qualche modo avrei dovuto rispondere. Diciamo che mi sono preparato a farlo, senza godermele.
Ringrazio tutte le volte che ciò è successo, altrimenti non avrei mai incontrato, credo, Teresa Raquin o Cristo si è fermato a Eboli, così lontani come sono questi libri dalla mia sensibilità letteraria. Però una lettura che prevede un confronto asimmetrico - tra chi ne sa più di me e me al primo incontro, senz'altro molto ingenuo - può falsare l'esperienza.
Mi mancava quell'esperienza folgorante della solitudine di fronte ai libri, che ha fatto di Moby Dick, di Auto da fé, di Don Chisciotte e del Conte di Montecristo (e, in misura diversa, anche dei Miserabili) dei momenti capitali e irripetibili della mia esistenza. Mi è mancata la scoperta autonoma della loro grandezza che, orgoglioso e autoreferenziale come sono, per me fa la differenza.
E penso che è strano, questo nostro lavoro, che dividiamo molte letture in quelle che ricordiamo di aver fatto e in quelle che ricordiamo a fior di pelle (e qui penso alla spregiudicata tassonomia calviniana in Se una notte d'inverno un viaggiatore). Ci sono libri che uno finge di aver letto anche se in effetti è passato onestamente dalla prima all'ultima parola senza saltare una virgola.
I ricordi scolastici sono spesso appannati - non parliamo poi di quegli ultimi autori troppo moderni e troppo poco attuali insieme - e penso che sarebbe bello parlare un po' di letteratura, fare rete (e cultura insieme), così, da pari a pari, da quello che siamo diventati e anche da quello che non siamo più. Da lettori, con la nostra storia di solitudine di fronte ai libri.