di Maria Grazia Calandrone
Se gli onestissimi svedesi hanno deciso, dopo ben 37 anni, di assegnare il Nobel per la letteratura a un connazionale è perché Tomas Tranströmer scrive versi come Nei mesi oscuri l’anima stava rannicchiata / e senza vita / ma il corpo veniva dritto verso di te. / Il cielo notturno mugghiava. Furtivi mungevamo il cosmo e siamo sopravvissuti. Vediamo che si tratta di un poeta ampio. L’ultima assegnazione a svedesi risale al 1974 e premiò lo stream operaio dei due scrittori autodidatti Eyvind Johnson e Harry Martinson. Il gesto fece scandalo perché entrambi erano membri dell’Accademia. E allora, doppiamente: se è stato ufficialmente valicato anche il peso di quella imbarazzante memoria è perché Tranströmer, dicono gli stessi Accademici, offre un nuovo accesso alla realtà. Ovvero, nelle parole spicce che amiamo, vediamo che si tratta di un poeta grande. Perché un grande poeta ri-crea un mondo in silenzio. Questo mondo che andiamo leggendo prima di Tranströmer non esisteva. Dunque leggi e pensi “questi sono i silenzi di Tranströmer” come penseresti “queste sono le donne di Vermeer”. Non cito a caso Vermeer, perché nelle poesie e nelle prose liriche di Tranströmer, arrivato dieci anni fa in Italia nella traduzione di Maria Cristina Lombardi per Crocetti, riscontriamo il medesimo scarto fiammingo, la stessa sospensione di un gesto quotidiano per guardare noi, che siamo meri osservatori posti fuori dalla scena vissuta, noi che pulsiamo in questa scena vera di un altro tempo. In questa vacuità museale, su queste poltrone. Ma veniamo inglobati – nel quadro e nel testo – dallo sguardo del soggetto – del quadro e del testo – che si ferma a pensare di noi. Come scrive Tranströmer: I ricordi mi vedono. È una comunicazione tra regni, orazianamente esattissimi entrambi. Così, siamo tirati tra quei merli, tra quei temporali, tra quelle lampade, nello scacco di quei pavimenti lustrissimi. Cose piccole che diventano immortali. Aghi, sonno, villaggi, orme di capriolo. Un codice preverbale viene intercettato e diventa una dottrina di segni. Leggendo Tranströmer appare chiaro che gli scarti di fabbrica e di limatura devono essere moltissimi, perché le sue parole sono poche e sospese come su un moto vitale, del quale sembra di sentire il rumore. Dolce rumore della vita. Mai nominata. Stessi scenari e stessa ambizione di scambio naturale tra arte e minutaglia esistenziale esprimono le tele curve di Alessandro Papetti, che ci avvolge e ci abbraccia con la sua opera, ci mette al centro del suo dinamismo irrefrenabile. In silenzio. Tranströmer è il poeta che oggi fa più silenzio. Il gesto etico per eccellenza. E con il suo silenzio influisce. Su gente mica da poco come Seamus Heaney o Derek Walcott, per dire. Ma i regni abitati da lettore e personaggio letto sono anche veri stati di conoscenza. Lo sa bene lo stesso Tranströmer, poeta a bagno dentro i fatti umani, che ha lavorato come psicologo nelle carceri minorili e con disabili e tossicodipendenti. Ormai sappiamo che la grande poesia non prescinde dalla vita ma mescola la quotidiana esperienza, degli uomini e con gli uomini, alla rivelazione del mistero che un poeta come Tranströmer attende sempre, continuando la grande tradizione delle correspondances di Baudelaire. Ma nella poesia di Tranströmer non si avverte il lamento del poeta-albatros baudelairiano che in terra si trascina goffamente perché ha le ali grandi, adatte solamente alle altitudini. Qui il poeta cammina senza inciampo o asfissia. La divaricazione ha trovato una sintesi, la mischia tra le attitudini è arditissima perché si scioglie la psiche al calor bianco dell’anima: le competenze psicologiche fondono nella lampante e indimostrabile intuizione e, adoperando la leva d’acciaio della metafora, meglio si forza il limite tra gli strati legnosi, tra i sedimenti secchi della convenzione. Ed ecco forse la sua rivelazione, bellissima e ricominciante: E il Vuoto gira il suo volto verso di noi e sussurra: “Non sono vuoto, sono aperto”.
Maria Grazia Calandrone, “il manifesto”, 7.10.2011