Edo Notarloberti e Viviana Scarinci su Sigur Rós
L’assoluto nel caso del gruppo islandese dei Sigur Rós, dà senso a tutto un album. Il lavoro che è il più significativo dell’intera produzione a oggi non ha titolo, anzi si intitola “()” ossia due parentesi che chiudono un cerchio o che aprono un foro. Basterebbe già questo a definire l’impossibilità di contestualizzare la cosa, come se l’assoluto, svuotato dall’essere un concetto e elaborato vocalmente, non trovasse miglior modo di spiegare la sua enormità che attraverso un pertugio che apre su un piccolo varco. O attraversando un simbolo minuto che contraria la sua estensione indicibile. Jònsi, il cantante e chitarrista del gruppo è omosessuale e cieco da un occhio, usa l’archetto di un violoncello per suonare la chitarra e sostiene che vedere da un occhio solo lo ha aiutato a non avere una visione stereotipata del mondo. Jònsi si inventa l’hopelandic, la lingua in cui canta nei brani di questo album, perché gli interessa poco che gli altri usino una lingua condivisa per illustrare un canto oppure perché nel momento in cui lo inventa gli interessa relativamente che il suo linguaggio artistico contenga un messaggio semantico che possa sviarlo dal suono. Il nome di questo idioma tradotto in italiano dovrebbe quindi significare una cosa anche grammaticalmente anomala: speranzese. Cioè un idioma tutto incentrato sull’attuabilità di un unico sostantivo: la speranza. L’hopelandic così non è una lingua vera e propria, non ha una grammatica, e non prende mai la parola, ma ripete le stesse sillabe senza esprimere un significato preciso. Una parola tuttavia viene in mente durante l’ascolto: cordoglio. Proprio nel senso etimologico di cordolìum, doglia che ferisce il cuore. La doglia del parto, le doglie hanno un andamento onomatopeico, nel senso che si legano a un verso quasi animale, che le emette nell’immediato. E che allarma l’emotività di chi veramente ascolta, mettendolo in una condizione paritetica in cui si coabita un lamento. Con l’hopelandic i Sigur Rós commuovono con un suono che pare sgorgare dal profondo della loro terra, appunto una doglia che risolve nel cantato un problema di fondo relativo a tutte le poetiche musicali e non, quello di rendere materiale e leggibile ciò che non lo è.
“()” è il terzo lavoro del gruppo islandese, uscì nel 2002. Questo album costituì un’autentica sorpresa rispetto alla loro produzione precedente. Il lavoro comprende otto tracce e 30 secondi di silenzio che dividono esattamente a metà l’opera. I Sigur Rós, insieme a Amina e Mum in questo modo spostarono il baricentro musicale europeo verso l’Islanda sul finire degli anni novanta iniziando il secondo millennio a una sorta di ritorno al silenzio. Il silenzio di voci sussurrate, strumenti giocattolo uniti a sonorità elettroniche e ricerca di suoni nuovi sia nell’ambito della musica elettronica che nell’acustico. Untitled #1 (Vaka), traccia di () è una musica che non sembra tanto composta ma scoperta, come quelle sonorità che sono tutte già scritte nell’attesa di esprimersi. Il brano inizia con il suono di un organo in una successione di cinque accordi a spiegare ciò che non giustificherebbero le parole. Qui è il mistero che precipita in cinque semplici accordi. La lentezza lascia il tempo di assaporare nei minimi dettagli questa magia. Ad ogni ripetizione appaiono nuovi colori, tenui quanto infinitamente potenti, nuovi strumenti, accenni di voci distorte. Il ciclo progressivo continua fino all’entrata della voce principale che appunto accenna l’assoluto, senza il peso delle parole, senza la presunzione di un significato. Così gli archi sono fitte di commozione e la voce è un velo sui passi sonori, e circola come una danza rituale in una notte infinita. Sul finale gli accordi si capovolgono, il giro armonico si eleva in alto e pare ricoprire come una coltre il mondo in ascolto. Gli accordi cambiano successione e la tensione diventa insostenibile, un suono doloroso che pare sgorgare dal profondo di una terra trasfigurata, che non è più mondo ma che somiglia, blandito da queste sonorità, tal volta al silenzio, al vento, alla solitudine. Nel 2003 viene girato il video Untitled #1 (Vaka), scritto e diretto dalla videomaker Floria Sigismondi. Regista pescarese naturalizzata canadese, autrice di numerosi importanti video musicali. Il video si apre, probabilmente in un aula scolastica, in cui qualcuno che ricorda un insegnante, si dedica in modo spicciolo all’ispezione igienica di un gruppo di bambini prima di lasciarli andare oltre una porta che sicuramente è la soglia di un sogno. Un sogno irrespirabile, dato che varcato l’antro, i bambini indossano tutti maschere antigas, sotto a una nevicata di cenere nera e giocano alla distruzione di un’automobile. Un uccello bianco, schiacciato al suolo, morto distoglie dal buio e da quello strano massacro di un oggetto nel mezzo di un incubo. La morte dell’uccello è reiterata dalla caduta di una bambina che forse muore, o forse si sveglia di là, nella realtà, addormentandosi alla finzione onirica del video. Ma prima di chiudere gli occhi la bimba sorride, come liberata, mortalmente liberata, quasi una metafora della gioia del vivere liberi anche un solo secondo. Quando nell’aprile del 2010 in Islanda eruttò il vulcano Eyjafjallajkull, proiettò nell’atmosfera a una quota di 4 chilometri una massa calda di polveri e gas in grado di influenzare il clima localmente, ma che ebbe effetti più estesi e più duraturi dati delle polveri finite nella stratosfera. Non si può non pensare a una terribile premonizione guardando oggi il video che la Sigismondi girò sulle note del brano dei Sigur Rós. Ma non una premonizione inerente al fatto di per sé. Piuttosto una di quelle premonizione che dà di sé l’assoluto in un singolo fatto. L’Islanda così lontana dall’Europa e il suo vulcano che bloccò tutto, gli aerei non volavano, panico per la nube, un solo vulcano così lontano avvertiva l’Europa di quanto fosse fragile la normalità. Come uno Tsunami, un terremoto, il vulcano erutta, la cenere cade, i bambini indossano la maschera antigas, in un sogno che anni prima la sensibilità artistica non convenzionale di un gruppo di persone hanno inscenato dando conto tanto dell’irrealtà di una lingua condivisa, tanto dell’inadeguatezza al sogno cui la realtà troppo spesso ci convince.