Come si diceva, è il sentimento a dominare, l’esigenza di riscoprire la genuinità delle piccole cose, il ricorso necessario al colloquio, al confronto (ci sono molte parti dialogiche nel romanzo), l’intoccabile rispetto dell’altro, la fede in se stessi, la forza di volontà e il desiderio di accogliere l’esistenza come il bene più prezioso che va gioito, incarnato con ardore senza lasciarsi ammorbare dal buio che, pure, esiste.
La struttura del romanzo mi fa pensare a quei famosi “ribaltamenti di fortuna” dell’epica germanica (e poi anche delle fiabe grimmiane) dove a un periodo di tranquillità e felicità (l’incontro di Julie e George e il loro matrimonio) segue un evento infausto che obbliga le persone a rivedere la loro vita, a confessarsi con il Creato e il Creatore e a solidarizzare con la malattia (il tumore di Julie) o a soprassedere a una mancanza (la morte del primo bambino di Julie). E’ la forza di coraggio, l’amore, quel nutrimento fondamentale e necessario che va coltivato e non lasciato stemperare nel tempo né lasciato ammorbare dalla tragedia a permettere di volta in volta quella risalita (a volte lenta e difficoltosa) che consenta un nuovo rinascimento. L’amore ne fuoriesce ancora più forte e la famiglia ancor più rinsaldata.
Non mancano in questo itinerario generazionale che la scrittrice ci fa fare, momenti di vera e propria devianza psichica e sociale che la scrittrice tratta con puntigliosa attenzione: dallo schizofrenico e pericoloso ragazzo di Julie all’apertura del romanzo, alla gelosa e caparbia prima moglie di George, personaggi che, pur localizzandosi in un prima temporale della coppia Julie-George lasciano di certo nei singoli personaggi una certa insoddisfazione e incredulità, addirittura una dilemma scoraggiante come è per George che dovrà, dopo anni e anni in cui la meschinità della ex compagna non ha conosciuto mai un addolcimento, riconquistare la fiducia del figlio allontanatogli mediante stratagemmi infami e che di certo hanno causato dolore anche al ragazzo.
La vita è fatta di luce ed ombre sembra dirci la scrittrice, ossia di piacere e dolore, di entusiasmo e scoraggiamento, di felicità e tragedia, ma sta all’uomo sapersi rialzare proprio grazie al suo spirito vitale improntato alla scoperta e alla conservazione del bene e al rigetto del vittimismo, dell’incupimento e della noia. Non sempre è facile, chiaramente ed è pure giusto osservare che non sempre una malattia può essere vinta riportando la famiglia alla sua serenità caratteristica prima della diagnosi, ma il messaggio di Ninnj Di Stefano Busà va oltre a ciò, analizzando con uno spessore psicologico impressionante cosa accade nei rapporti interpersonali quando subentra la minaccia, la sofferenza per la malattia, il timore di un lutto. A tutto ciò si contrappone un messaggio di speranza e di fede in sé stessi (che non necessariamente implica una fede anche in Dio anche se, come chiosa la scrittrice in chiusura, è bene non lasciarsi invischiare da pensieri ineluttabili quali il fatalismo anima).
Gli scenari esotici descritti con meticolosità tanto nella loro componente arboricola e silvestre quanto nelle loro caratterizzazioni climatiche, rendono questa narrazione ulteriormente speziata permettendo al lettore di non fossilizzarsi e attaccarsi mai troppo agli eventi contingenti quali può essere una vita consuetudinaria vissuta nella quotidianità della propria dimora, e di farlo spaziare, mettere in gioco, inaugurare una nuova abitazione, viaggiare, farlo domandare e osservarlo da vicino come se fosse poi davvero un nostro parente con il quale soffriamo e gioiamo a seconda degli intervalli umorali che sono propri di quella esperienza sul mondo che la scrittrice condensa in quel “soltanto una vita” che poi, per ritornare alla vena poetica della Nostra, non è che un azzeccato ossimoro con il quale giocosamente e lucidamente ci consegna delle pagine di indubbia caratura letteraria e valore morale: “Viviamo l’amore! Non abbiamo molte vite, ce ne resta solo una, ed è molto breve!” (64).
Jesi, 03.08.2014