La speranza in fondo al mare: i fantasmi che affogano senza nome e senza patria

Creato il 07 aprile 2011 da Antonellabeccaria

Umberto Bossi l’aveva detto nel suo idioma, fuori dalle palle. E lo sono i 250 migranti morti nella notte tra il 5 e il 6 aprile scorsi quando si è rovesciato il barcone con cui stavano cercando di raggiungere le coste italiane. Venivano dal Corno d’Africa. Etiopi, somali e tra loro era rappresentata qualche altra etnia dell’Africa nera. Il nostro governo, però, fa le condoglianze alla Tunisia. Che tanto è lo stesso, una nazionalità vale l’altra. Quasi fossimo tornati ai tempi di una faccia, una razza. Senza quasi, forse. E il rammarico per la nuova sciagura del mare deve essere un en passant dato che intanto il capo del governo annuncia ai suoi ministri che ha cambiato idea. Era stato affrettato nello scegliere su Internet la sua residenza lampedusana, probabilmente troppo vicina all’aeroporto e dunque fastidiosa, con tutto quel lavoro. Aggiunge, ai suoi uomini dell’esecutivo, che ne troverà un’altra e che li terrà informati. Perché qui si lavora, mica storie.

Dall’inizio dell’anno, gli arrivi in Italia sono stati 25.800, afferma il ministero degli Interni. E sono 800 i morti, da gennaio a oggi. Gente senza nome, considerata anche senza dignità. Infestatori delle coste italiane, candidati a infestare anche il resto del territorio. Non importa se stanno in un centro di identificazione oppure se in un campo profughi. Figurarsi poi se affittano una casa, magari in edilizia popolare. Meglio che finiscano in fondo al mare, per l’Italia e il suo governo. E magari anche per l’Europa, che a livello comunitario ogni tanto interviene con proclami di circostanza e a livello giornalistico sorvola sulle vittime.

E un po’ come accade per la (interrotta) “emergenza” fisica generata dagli arrivi, tutto sembra legato all’attualità (solo della penisola). Una notizia d’agenzia o da telegiornale che smette di essere reale una volta terminato il take o il servizio. Eppure, guardando agli ultimi trent’anni, sono stati innumerevoli i fatti assolutamente simili a quelli che si verificano in queste settimane.
Le carrette del mare, nella memoria collettiva, rimangono impresse dall’agosto 1991 quando, sulla scia dei conflitti che stavano esplodendo nei Balcani, iniziavano i flussi di disperati sulle coste del sud Italia. Quella volta approdò al porto di Bari un cargo, l’Anija Vlora, e forse fu la prima emergenza immigrati. Ma con il tempo, ne sarebbero seguite molte altre. Rimaste emergenze, che con sé hanno recato anche un bilancio di rovesciamenti (e morti) che difficilmente si ricorda. O si vuole ricordare.

Decine di persone recuperate dal mare in acque più o meno aperte, ma soprattutto le cifre ci parlano di centinaia di morti. E di dispersi, per lo più rimasti tali, inghiottiti da un naufragio e di cui non si sono avute più notizie. Non c’è stato anno in cui questi “incidenti”, per così dire, non si siano verificati. E meriterebbero di essere citati tutti quanti, ma si tratterebbe di una conta delle vittime lunghissima per una altrettanto lunga scia di sciagure.

E allora ci limitiamo a quelli più gravi. Partendo dal 25 dicembre 1996, quando ci fu uno scontro tra l’isola di Malta e la Sicilia tra due imbarcazioni, la libanese Friendship e la motonave Yohan. A lungo negato (tanto da diventare oggetto di inchieste giornalistiche senza le quali oggi si saprebbe ben poco di ciò che avvenne quel Natale), le vittime sono state tra le 200 e le 300. Appena più di 3 mesi dopo, il 28 marzo 1997, un’imbarcazione albanese (che cola a picco) si scontra con la Sibilla, corvetta della marina militare tricolore. Bilancio: 56 morti (di cui solo 4 rinvenuti subito, per gli altri occorrerà attendere fino all’ottobre successivo, quando sarà ripescato lo scafo) e 34 persone salvate. E sul finire di quell’anno, il 21 novembre, nel Canale d’Otranto, al largo della costa leccese, esplode la camera d’aria di un gommone. Sedici cittadini albanesi perdono la vita.

Nel 1998 sono 2 gli incidenti. Il 9 febbraio altri 5 cittadini albanesi muoiono per una carretta salpata da Valona che affonda mentre il 27 novembre, nella zona di Brindisi, la stessa sorte tocca ad altri 7 immigrati la cui imbarcazione cozza contro quella di alcuni contrabbandieri.

Ma una delle annate più tragiche è quella del 1999. Il 27 maggio, di nuovo nel canale d’Otranto e di nuovo un gommone. Che stavolta finisce contro una vedetta della guardia di finanza. Cinque vittime di cui 2 minorenni. Poi, a ferragosto, tra il 15 e il 16, in circostanze che non sono mai state chiarite, si verifica un nuovo disastro. Le fonti sono concordi nel parlare di un centinaio di morti, di probabile etnia rom, inabissatasi al largo delle coste del Montenegro. E ancora il 1 novembre, a Torre Cavallo, provincia di Brindisi, un gommone naufraga poco lontano dal litorale. Annegano 6 stranieri. Il bilancio non è ancora concluso perché tra il 30 e il 31 dicembre, si devono contare altri 59 morti nel canale d’Otranto. Si dovranno attendere quindi giorni per averne la certezza dietro sollecitazione dei familiari delle vittime, che non avevano più ricevuto notizie dai congiunti partiti per l’Italia.

Il nuovo decennio sembra aprirsi meno tragicamente. Nel 2000 si ricorda un solo episodio, accaduto il 4 maggio lungo la riviera del Salento. Due morti e una decina di dispersi dopo lo scontro tra un gommone e una motovedetta della polizia. E qualcosa di analogo accade l’anno successivo, quando il 10 giugno, a Trani, provincia di Bari, i morti sono cinque morti, sette i dispersi e alcuni sopravvissuti (che si mettono in salvo a nuoto) per l’affondamento di una carretta del mare.

Il 2002 torna a essere un’ecatombe. Il 7 marzo, nel canale di Sicilia, a una sessantina di miglia da Lampedusa, sono 12 morti dopo il naufragio di un barcone su cui si trovava un centinaio di persone. Non si deve attendere che qualche giorno perché l’11 marzo, di nuovo al largo di Otranto, in acque internazionali, siano 6 le vittime sulle 28 persone trasportate da un gommone. L’ 8 giugno, a Castro Marina, provincia di Lecce, a qualche decina di metri dal litorale, un episodio a cui si aggiunge la ferocia umana: gli scafisti lanciano in mare una quarantina di immigrati e feriscono a colpi di coltello chi non voleva lanciarsi. Ripescati 4 morti. Infine il 2 dicembre, in viaggio dalla Libia all’Italia, un’imbarcazione naufraga per il maltempo in mare aperto e muoiono 12 persone. Altre 52 vengono salvate e gli altri risulteranno dispersi.

Nel 2003 sono due gli eventi tragici. Il primo, avvenuto il 20 giugno, un naufragio al largo della Tunisia provoca una cinquantina di feriti. Nell’immediato sono 160 i dispersi, di cui solo 41 verranno recuperati. Il ottobre, il 20 per la precisione, gli immigrati giunti in Sicilia con qualcosa di appena più di una zattera raccontano alla guardia costiera che, durante la traversata sono morte 70 persone.

L’anno successivo, sempre al largo di Tunisi e verso l’Italia, inabissamento per una nave che trasporta 75 persone, 70 marocchini e 5 tunisini. I morti sono 17, una cinquantina i dispersi e 11 coloro che vengono recuperati. Il 2006 è caratterizzato dal salvataggio da parte della marina militare di 120 immigrati. Un barcone si è rovesciato e i corpi senza vita sono 10. Quaranta i dispersi.

Il 1 giugno 2007, 21 vittime al largo delle coste siciliane e, nello specifico di questo episodio, va registrato il rifiuto del governo di Malta di accogliere le salme. Ad appena più di 2 settimane di distanza, il 17 giugno, nel canale di Sicilia, vengono ripescati 11 corpi (3 i dispersi) e il 18 luglio, a 180 miglia da Lampedusa, si capovolge un barcone che trasportava 26 persone. Undici non saranno ritrovate e le altre saranno salvate dal motopeschereccio italiano Monastir. Nelle stesse ore c’è un’altra sciagura: su 22 naufragi, i morti saranno 4. Il 29 ottobre, a Roccella Jonica, provincia di Reggio Calabria, sempre a causa del maltempo si spezza un’imbarcazione con a bordo tra le 120 e le 150 persone, tra 12 minorenni. Sedici i morti.

Il 12 maggio 2008 dei 66 immigrati che avevano tentato di arrivare in Italia da Monastir, in Tunisia, 47 moriranno di stenti e di freddo. I corpi dei morti vengono gettati in mare e all’arrivo dei soccorsi altri 3 cadaveri saranno ritrovati sull’imbarcazione. Di nuovo nel 2008, il 28 agosto, al largo di Malta muoiono 70 persone. Tra gli 8 salvati dal motopeschereccio Madonna di Pompei, la metà erano donne, ma si perdono le tracce di altre 78 persone, tra cui alcune ragazze incinte.
Ne mancano tanti di episodi, vuoi per un bilancio delle vittime meno nutrito o vuoi perché risulta complicato andare a rintracciare tutti i fatti dell’ultimo quindicennio. Già però questi eventi rendono idea dell’ecatombe.

Rendono l’idea di come il Mediterraneo, oltre a scacchiera geostrategica importante sia a fini militari che commerciali, sia diventata anche altro: una tomba collettiva, una fossa nella quale sono finiti essere umani. Oltre alla speranza di una vita migliore, annegata tra dittature terzomondiste, approfittatori della peggior specie ed egoismi occidentali volti sempre di più al continente-fortezza.

(Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista Domani diretta da Maurizio Chierici)


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