La spia di San Sabba
Creato il 14 novembre 2015 da Gaetano63
Traditori e traditi a Trieste sotto il nazismo
Mauro Grini, ebreo, si vantava di aver fatto catturare oltre millequattrocento persone. Era tenuto in tale considerazione da essere autorizzato a portare una pistola. E da agire sempre affiancato da due SS
di Gaetano Vallini
«Se il diritto all’oblio è umanamente comprensibile, il dovere della testimonianza e, se del caso, della denuncia è, storicamente e moralmente, più che comprensibile. È necessario, essenziale, vitale: perché il passato non conceda repliche. Il venir meno di questo dovere ha impedito — nel caso specifico dei crimini della Risiera di San Sabba: uno solo fra i tanti del nazifascismo — che si facesse chiarezza e giustizia, sia pure con scandaloso ritardo. E ancora scandalizza il tombale silenzio con cui una città ignava, reticente e in inquietante misura “complice” ha graziato quanti, dei suoi stessi abitanti, a quel frammento di Olocausto hanno fattivamente contribuito». L’accusa, durissima, si trova nel libro Via San Nicolò. Traditori e traditi nella Trieste nazista (Bologna, 2015, il Mulino, pagine 170, euro 15) scritto da Roberto Curci e dedicato alla figura di Mauro Grini, ebreo, considerato il più spietato collaborazionista al servizio dei nazisti, ai quali consegnò centinaia di innocenti suoi correligionari. Durissima ma non nuova. E forse anche per questo l’autore la relega, dopo poche ma già indicative righe nella premessa, ben più dettagliata tra i “ringraziamenti (e non)” alla fine del libro. Tuttavia è un’accusa inequivocabile, ed è rivolta a «quanti, fra coloro (ben pochi, ormai) che conobbero di persona Mauro Grini, hanno rifiutato di fornire alcuna testimonianza sul tuttora innominabile. I loro sia pur labili ricordi de visu avrebbero consentito di focalizzare meglio la sua figura e i precedenti del suo operare. Ma si sa — scrive Curci — che la verità fa spesso male e che la rimozione e l’omertà, con il rispettabile pretesto di non rinnovare sofferenze personali o familiari, rappresentano, altrettanto spesso, una forse plausibile, non condivisibile via di fuga dal passato, ancorché ormai remoto. Chi ne scapita non è solo la verità in assoluto, ma, nei casi qui descritti, che riguardano migliaia e migliaia di persone innocenti, la verità storica».Ma cosa accadde a Trieste in quegli anni bui? Il giornalista lo racconta attraverso una documentata inchiesta che conduce il lettore in una dolorosa storia in cui si intrecciano i tragici destini di centinaia di uomini e donne, anziani e bambini. E per farlo sceglie di partire da un luogo simbolo: il numero 30 di via San Nicolò, dove aveva sede la libreria antiquaria di Umberto Saba e dove, dopo la guerra, aprirà la sua sartoria Samuele Grini, padre del famigerato Mauro e di Carlo, marito di Lidia Frankel, ex internata alla Risiera, sorella di Margherita e Malvina, due giovani commesse della libreria morte suicide nel 1922 a poche settimane l’una dall’altra. Un legame indiretto quello del discusso poeta — «in qualche modo al tempo stesso ebreo e antisemita, tema di molte discussioni fra gli interpreti», come ha scritto la storica Anna Foa — con i Grini, e purtuttavia quasi emblematico di quanto accadde nella città. Più che altro una suggestione, che Curci non approfondisce lasciandola sullo sfondo, per lanciarsi subito sulle tracce di Mauro Grini, all’epoca poco più che trentenne, uomo calcolatore e malvagio. Al punto da vendere persino i suoi parenti più stretti. Anche se la denuncia dei genitori, del fratello e della cognata apparve ai più una messinscena, visti i privilegi di cui godevano nella Risiera di San Sabba. Scandagliando testimonianze, documenti, faldoni processuali per i crimini compiuti in quello che era l’unico campo di sterminio nazista in Italia e altro materiale scritto su quegli anni, ricostruisce la storia della spia. L’autore cerca invano di trovare una motivazione forte per la decisione di Grini di diventare un delatore, oltre al timore di essere egli stesso deportato e ucciso o alla semplice brama di soldi. La prima spiegherebbe la ricostruzione secondo cui si consegnò ai nazisti come spia subito dopo l’arresto nella primavera 1944 (entrava e usciva da San Sabba a piacimento). La seconda avvalorerebbe la versione che lo vede invece attivo fin dall’inizio dell’occupazione nazista. Ma nessuna delle due appare convincente se rapportata all’accanimento con il quale Grini si impegnava nella caccia.In ogni caso mise su un commercio vero e proprio, che gli fruttò non poco — pare ricevesse settemila lire a ebreo, senza contare i gioielli e il denaro che si faceva consegnare in precedenza dalle vittime in cambio di una protezione subito trasformata in delazione — e che si sviluppò anche oltre i confini della sua città. Secondo una scheda diffusa prima della liberazione dal Cnl dell’Alta Italia, Grini aveva fatto arrestare trecento ebrei a Trieste, cento circa a Venezia, e tra la fine del 1944 e i primi del 1945 pare fosse ancora attivo tra Firenze e Milano dove aveva denunciato un centinaio di persone. Secondo l’Archivio centro documentazione ebraica contemporanea di Milano, l’uomo si sarebbe direttamente vantato di aver fatto catturare 1400 ebrei. E, stando alle testimonianze, non si sarebbe limitato alla sola delazione, ma avrebbe partecipato di persona a interrogatori, deportazioni, torture e perfino esecuzioni. Il più delle volte lo si vedeva in giro in compagnia di un ufficiale nazista, quel Franz Stangl già impegnato in patria nell’operazione t4 e poi come comandante dei campi di sterminio di Sobibor e Treblinka, prima di giungere a San Sabba. Grini era tenuto in tale considerazione da essere autorizzato a portare una pistola e da agire sempre affiancato dallo stesso Stangl o da due SS. Così quando riconosceva in strada un ebreo i nazisti entravano immediatamente in azione. Ma raramente si trattava di incontri casuali. Dietro c’era un lavoro di ricerca certosino, con meticolose indagini perfino sui ricoverati in ospedali e case di riposo. Come i ventidue ospiti ricoverati dell’ospizio di Venezia, tra i quali il rabbino Adolfo Ottolenghi. Un’attività delatoria ben nota se è vero che il 26 agosto 1944 i fratelli Adolfo e Ignazio Ribarich si imbatterono in Grini alla stazione di Venezia e uno di loro gli urlò: «Farabutto! Sappiamo che tu, ebreo, denunci ebrei».Ma il quadro descritto da Curci si riempie di altri personaggi oscuri, non solo soldati nazisti, ma anche italiani, in una città in cui si aggiravano collaborazionisti, delatori, spie, intrallazzatori senza scrupoli. Un quadro fosco nel quale Mauro Grini, non di rado in compagnia della moglie, Maria Collini, si muoveva con disinvoltura. Fino a pochi giorni dalla liberazione, quando si persero le sue tracce. Fu il fratello Carlo, anch’egli personaggio ambiguo e discusso benché scagionato da ogni accusa dopo la guerra, a raccontare che era stato ucciso insieme alla moglie su ordine di Stangl durante il ritiro dalla Risiera perché sapeva troppo. Ci sono state anche voci su un’esecuzione da parte di partigiani. Altri testimoni sostengono invece di averlo visto negli anni successivi. Curci tende a credere a quest’ultima ipotesi, ovvero che Grini sia riuscito a scappare rifugiandosi in Sudamerica, seguendo la rotta di molti criminali di guerra. Nel 1947, la Corte d’assise straordinaria di Milano lo condannò a morte in contumacia, in un processo che se non altro aiutò a ricostruirne, almeno in parte, la vita. Lo stesso tribunale l’anno successivo si oppose a una inattesa richiesta di grazia, non si sa bene presentata da chi. Una vicenda, quest’ultima, che aumenta l’imbarazzo intorno alla figura di Mauro Grini, e su un capitolo tra i più oscuri della storia di Trieste. «Esiste una letteratura scarsa, nessuno ha mai approfondito il personaggio, ci sono libri anche importanti in cui si cita il caso Grini en passant ma nessuno è andato mai a fondo», sottolinea infatti l’autore, puntualizzando la diversità di trattamento riservato a un’altra grande delatrice ebrea, la giovane romana Celeste Di Porto. «A Roma — spiega — la comunità ebraica ha organizzato una grande ricerca, per far capire e contabilizzare, e che ora è finita e confluirà in un libro di prossima pubblicazione». In sostanza nella capitale la «comunità ha avuto il coraggio di indagare su queste orribili faccende mentre a Trieste ha sempre rimosso, coperto questa storia». Del resto, aggiunge, a Trieste hanno continuato a vivere fino agli anni Sessanta, col proprio nome, alcuni criminali nazisti.
«È per caso la Risiera il nostro passato che non passa?» si chiedeva nel 1989 lo storico Elio Apih. Una domanda che il libro di Curci oggi ripropone. Di certo ci sono i dati: dei circa settecento ebrei triestini deportati tornarono solo una ventina.
(©L'Osservatore Romano – 15 novembre 2015)
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