La sposa promessa

Creato il 24 novembre 2012 da Lo Sciame Inquieto
Con la mia amica G. commentavamo che guardare questo film produce la stessa sensazione che guardare dentro un acquario. Si vedono dei pesci muoversi, entrare in relazione o ignorarsi, affannarsi in una direzione o nell’altra, ma è praticamente impossibile capirne le motivazioni.
Qui l’acquario è rappresentato da una comunità ebrea ultraortodossa di Tel Aviv, in cui gli uomini hanno i capelli con le tipiche treccine laterali (payot), i copricapi con la falda tesa oppure dei cilindri coperti di pelliccia (shtreimel), le donne sposate hanno il capo coperto da una specie di turbante (tichel), e le ragazze ancora in età da marito hanno il capo scoperto ma sono vestite come negli anni ’50.
La protagonista, Shira (Hadas Yaron), ha 18 anni e la famiglia le propone un ragazzo della sua età da sposare. Quando sua sorella Esther muore dando alla luce il suo primogenito e il marito Yochai (Yiftach Klein) – dopo qualche tempo dalla morte – vuole risposarsi per dare una madre al bambino, Shira si trova di fronte a una scelta che ai nostri occhi appare paradossale: quella tra il giovane inizialmente proposto dalla famiglia o il cognato parecchio più grande di lei che la famiglia a questo punto auspicherebbe come marito.
Il tormento interiore di Shira risulta incomprensibile agli occhi di chi - come la sottoscritta - continua a chiedersi per tutto il film come un essere umano possa accettare un tale insieme regole di vita e sociali senza ribellarsi. O meglio, in realtà, si può comprendere che, se questo è sempre stato il proprio mondo o se ci si è arrivati rifiutando quello circostante, certi meccanismi non arrivano nemmeno a poter essere messi in discussione, ovvero li si è scelti proprio per la loro certezza/rigidità e l’impossibilità/non necessità di un approccio critico.
Mi impressiona leggere che la regista Rama Burshtein è nata a New York, ma dopo essere andata a studiare a Gerusalemme e aver conosciuto le comunità ortodosse ha deciso non solo di aderire in prima persona a questo modello di vita ma anche di utilizzare l’arte cinematografica per far conoscere questo mondo all’esterno.
Ebbene, dal mio punto di vista, Rama Burshtein non fa un buon servizio agli ebrei ortodossi, dal momento che chiunque abbia vissuto un minimo processo di emancipazione non potrà che rifiutare un mondo in cui gli universi maschile e femminile sono completamente separati, le donne hanno come loro massima aspirazione il matrimonio e quelle che non si sposano portano addosso una specie di marchio di infamia, la vita di tutti è profondamente condizionata dalle scelte del rabbino, dalle sue decisioni e dalle sue interpretazioni degli eventi.
È evidente che il mondo qui rappresentato non è espressione esclusiva degli ebrei ortodossi in quanto molte caratteristiche si ritrovano trasversalmente in numerose comunità religiose e non, soprattutto quelle con forti regole tutte interne e autoreferenziali.
Non sono dunque d’accordo con chi dice che questa è fondamentalmente una storia d’amore e che - anche all’interno delle regole sociali rigide in cui si muove – si riconoscono sentimenti forti e universali. Io non ho visto una storia d’amore, bensì una storia di autocastrazione e di scelta volontaria della sofferenza.
Voto: 2/5

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