1. Da quanto peschi?
Uno dei miei primi ricordi di infanzia è di me su una spiaggia lunghissima, credo in Sicilia. Con una cordicella ed uno di quei galleggianti da rete rosso-carmine sono immerso fino al ginocchio nell’acqua appena mossa, e cerco di pescare. Non so cosa, ma ricordo distintamente che pensavo avrei preso un grosso pesce da un momento all’altro. Mia madre dice che ero davvero piccolo. Quindi direi che pesco da sempre, forse pesci ho iniziato a prenderne un po’ dopo. Ho pescato in tutti i modi, quando avevo 7-8 anni mio zio mi ha insegnato a pescare a mosca, e dal 2005 supergiù pesco ormai solo con esche artificiali.
Ho iniziato da piccolo a costruire mosche, quando ho iniziato a pescare con mio zio. Mi ha insegnato tutto e, anche se non è notoriamente una persona molto paziente, in quel caso è stato fantastico. Il suo armadietto delle piume era il mio paese dei balocchi. Per quanto riguarda gli artificiali non saprei dire esattamente, credo verso il 2005-2006. Da quel momento ho costruito in maniera molto intermittente, con pause anche davvero lunghe. Solo nell’ultimo anno mi sono messo a lavorare con più costanza, e passione.
Paradossalmente le prime cose che ho fatto sono state dei kabura (che ai tempi per me erano oggetti astratti visti solo su qualche rivista o online) con del DAS. Li ho portati con me in un viaggio e prima di sciogliersi inesorabilmente hanno anche catturato!! Subito dopo, come primi artificiali più tradizionali mi sono cimentato con delle piccole swimbait snodate. Come accade quasi sempre il progetto era troppo ambizioso per un principiante. Anche se non esattamente bellissime mi hanno regalato più di qualche bel pesce e soddisfazione. Qualcuna ancora la conservo…
3. Perché hai iniziato ad autocostruire?
Credo che il mio impulso ad autocostruire sia nato dal fatto che sono un malato dipendente dalla pesca. Era, ed è tutt’ora, un modo per lenire le mie crisi di astinenza (che insorgono già pochi secondi dopo la mia ultima uscita), un modo per far viaggiare la mente. Progettare e costruire un artificiale, immaginare come impiegarlo e il pesce che lo attacca, mi danno tanto piacere quasi quanto poi catturarlo davvero. Poi ovviamente viene l’esigenza di avere artificiali ad hoc per le situazioni che affronto.
Come scrivevo sopra pesco solo con esche artificiali. Direi che al novanta percento pratico spinino & casting, ma quando posso non dico mai no alla coda di topo. Ho un pallino per l’urban fishing, cioè la pesca in tutte quelle situazioni che si possano definire urbane, cittadine. Mi piace da morire trovarmi immerso nel cuore storico di una città, o nei suoi sobborghi diroccati, con una canna in mano, pescando acque spesso bistrattate, e tirare fuori un bel pesce. E’ una pesca che mi colma.
Anche il vertical jigging mi piace molto, in particolare quello ultra light. Purtroppo non avendo una barca (almeno non una che ti permetta di uscire in mare), non ho potuto praticarlo più di tanto. Ora che ho trovato il modo di impiegarlo anche in acqua dolce, sui persici reali, sono molto contento. (Tengo a ricordare che in molti si sono rifatti gli occhi sui suoi luccioni e su uno dei siluri più grossi che il Tevere ricordi… N.d.R.)
5. Qual’è il tuo più grande vizio?
Mi smangiucchio le labbra. Più fa freddo e più si screpolano e più smangiucchio.
Sicuramente la balsa. A me piace costruire artificiali relativamente piccoli, e la balsa è un materiale estremamente versatile, facile e veloce da lavorare. In ogni caso mi piace costruire con il legno, lo sento vivo sotto le mani, diversamente da materiali sintetici. Credo che la mia tecnica di costruzione sia più o meno quella standard che conosciamo tutti, forse con qualche accorgimento un poco meno convenzionale, come ad esempio l’uso della bicomponente per riempire gli scassi nei piccoli artificiali piuttosto che lo stucco. Mi piace fare tutto con le mani, solo per lo scasso dei piombi e per la paletta uso un trapanino.
Penso che se dovessimo cancellare una qualsiasi delle innovazioni tecnologiche che hanno migliorato il nostro modo di pescare negli ultimi anni, questo non ci precluderebbe di catturare gli stessi pesci. Di conseguenza non credo di poter giudicare una singola innovazione la più rilevante, piuttosto tutto l’insieme di evoluzioni dei materiali che ci mettono ormai a disposizione strumenti formidabili. Per quello che riguarda il mio pescare, sicuramente il trecciato ha segnato una svolta epica.
8. Qual’è l’elemento che conta di più nel successo di un artificiale? Colore e realismo, equilibrio dei pesi e vibrazioni, forma e sua idrodinamica?
Credo che quello che decreti il successo di un artificiale sia l’essere adatto all’impiego che ne stiamo facendo. Tutte le sue caratteristiche come appunto l’equilibrio dei pesi, le vibrazioni, l’idrodinamicità sono atti a renderlo tale, e di conseguenza ogni singola di esse è determinante e allo stesso tempo non essenziale. Credo molto nella capacità imitativa di un artificiale, più che meramente estetica, ‘di presentazione’. Applico molto il concetto moschista del ‘match the hatch’ nello spinning. Sono quindi convinto che il realismo dell’artificiale, nel suo complesso, sia piuttosto importante.
Come prima cosa disegno il modello, lo ricalco su un foglio di acetato e ne ritaglio la dima. Poi segno i contorni sul legno e sego i singoli rettangoli. Lavorando con la balsa uso un coltello per ricavare una sagoma meno grossolana. Molti mi hanno consigliato un cutter, ma lo trovo troppo violento e freddo. Il coltello, sempre ben affilato è più dolce e morbido. A questo punto carteggio prima a 120 e poi a 320, pratico gli scassi per la piombatura ed eventuale paletta, i fori per gli anelli, e assemblo il tutto. Due mani di turapori, una carteggiata fine nel mezzo, e l’artificiale è pronto per la verniciatura. Una volta finito due strati di epossidica bicomponente CFSystem e il gioco è fatto. Nel caso dei ‘Real Deal’, gli artificiali che realizzo con pellicola di alluminio, è un procedimento particolare, gli strati tra il turapori e la resina finale diventano ben nove. E’ un processo alquanto lungo e laborioso, ma l’effetto mi lascia molto soddisfatto!
Costruisco principalmente negli spazi ritagliati allo studio e ad altri impegni, quindi per esempio dopo pranzo o dopo cena. Sessioni relativamente corte ben si conciliano con il mio stile di costruzione, che implica passaggi indipendenti relativamente brevi tra i quali per forza di cose deve passare più o meno tempo. A pesca vado minimo una volta alla settimana, una giornata intera, quasi sempre nel weekend. Spesso poi utilizzo uno degli spazi di cui sopra per una bella battuta di urban fishing sul Tevere, che dista circa un quarto d’ora da dove abito. Anche questo avviene normalmente circa una volta a settimana. Se le condizioni però sono propizie e i pesci in attività nulla toglie che possano diventare anche tre-quattro sere in una settimana…
Beh… per me la pesca è tutto, o quasi. Anzi no. Sarebbe sbagliato esprimerlo così. Per me la pesca è un bisogno. Una pulsione profonda, intima, impossibile da sopprimere o ignorare, che ogni volta mi spinge sull’acqua. Più che alla ricerca della cattura, alla ricerca di quella che è la pesca vera e propria. L’autocostruzione è un’estensione di questa mia dipendenza, un modo per far lavorare la testa e le mani in momenti nei quali non posso essere sull’acqua. E poi di nuovo anche il creare oggetti specifici per le mie esigenze, e quelle degli altri, come è il mettermi alla prova sul fronte ‘ingegneristico’ della costruzione.
12. Qual’è la tua marca di esche artificiali presente sul mercato preferita?
Sicuramente la giapponese Imakatsu. La mente estrosa che vi è dietro tira fuori artificiali micidiali ed high tech, oltre che davvero bellissimi nel design e nelle rifiniture. Poi anche la polacca Dorado, che, tramite una produzione di esche in legno svolta principalmente a mano, conserva ancora quel sapore di artificiale tradizionale che lavora e cattura bene perché ha un’anima.
13. Qual’è il tuo sogno di costruttore di esche?
E’ difficile da dire… Sicuramente non mi dispiacerebbe catturare un cavedano da oltre 60cm (il mio unicorno) con un mio autocostruito. Qui l’inverno sta appena arrivando, ed è sinonimo di grossi cavedani urbani. Un over 60 già mi è sfuggito, vediamo quello che si può fare…
Domenico Shikey Lures oltre che essere un grande costruttore e mio compagno di pesca è anche un’ottimo amico, una persona squisita. (Non perdetevi la sua intervista in questo blog! N.d.R.) Sono sicuro che, quando questo famigerato laboratorio a cui sta lavorando sarà finito, costruiremo molto insieme. Anche con il mio amico danese Mark Ellyatt di Fishnfiction, mi trovo molto bene. (Da non perdere! Lavori eccezionali! N.d.R.) E’ un costruttore davvero interessante, sempre alla ricerca di come utilizzare materiali di scarto per i suoi artificiali. Mark è un pazzo scriteriato, ha la mente che lavora a duemila e di conseguenza è molto stimolante costruire con lui. In poco più di mezz’ora fianco a fianco abbiamo gettato le basi per quelli che adesso sono gli artificiali di cui sono più soddisfatto, i Real Deal. Il vichingo è un maestro dalla pellicola di alluminio… Ovviamente poi ci sarebbero i grandi giapponesi, come il mitico Ginei. Più che costruirci insieme però, mi piacerebbe osservarlo mentre sapiente crea i suoi gioielli.
Sicuramente come materiale la balsa. Poi servono un seghetto, un coltello/cutter, carta vetrata in due grane, 120 e 320, ed una punta di trapano, diciamo del 4 (magari anche con un trapanino dietro). Poi ovviamente tutti i prodotti per le finiture, come il filo d’acciaio, il turapori, le vernici e un trasparente per sigillare il tutto. In ogni caso l’attrezzo essenziale che non deve mancare è la testa. Quella è davvero l’unica cosa determinante. Come tipologia di artificiali, sicuramente quelli senza paletta, perché la creazione della stessa non è proprio semplicissima. Certo con artificiali tipo jerk e lipless crankbait non è proprio semplicissimo, per via dello studio che sta dietro alla distribuzione dei pesi necessaria a farli muovere. Probabilmente un popperino è la cosa più facile da fare: una forma a sigaro, una bocca concava e un singolo peso decentrato nella metà posteriore del corpo e il gioco è fatto! Poi una volta capito come fare la paletta direi che anche piccoli minnow e jerk sono abbastanza abbordabili.
16. Che consigli daresti a chi si avvicina all’autocostruzione?
Di iniziare con progetti semplici. Un problema di quando si inizia è quello di voler creare qualcosa di troppo ambizioso. Quasi inevitabilmente si è destinati a fallire, vista la poca esperienza, e conseguentemente demoralizzarsi. Quindi, sempre iniziare in maniera progressiva, studiare bene i progetti… magari copiare anche un po’, per capire. Non c’è nulla di male. E poi avere tanta pazienza e concentrazione. Se ci accorgiamo di lavorare deconcentrati o svogliati, meglio mettere via tutto e continuare un altro giorno. I risultati saranno decisamente migliori.
Lasciaci qui di seguito i recapiti per coloro che vorranno contattarti e vedere i tuoi lavori
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