Mario Bevione, un mio caro amico e fine lettore, ha commentato così nella sua recensione di aNobii «Bolaño ha scritto per tutta la vita un unico, smisurato romanzo, che poi ha ritagliato, formando un immenso puzzle, dove ogni pezzo non si limita a combaciare con i quattro che lo circondano, ma può incastrarsi quasi con tutti.» Ecco: non ho letto altro che questo lavoro dello scrittore cileno, ma l’osservazione di Mario mi pare totalmente condivisibile nel senso che il tono della sua scrittura è quasi da blog, qualcosa di ciclico, interno, autodialogante, dove i fatti narrati sono al limite dell’essere pretesti narrativi piuttosto che una storia vera e propria. E forse per alcuni lettori questo potrebbe essere il suo limite.
Ma una storia c’è, pur nella sua diluizione: quella di Carlos Wieder, un sadico nazista pseudo-poeta che sotto il falso nome di Alberto Ruiz Tagle si infiltra tra gli studenti universitari diventandone amico. Di quei piccoli e quasi insignificanti poeti e scrittori, o semplici universitari, fa fare una strage durante il Golpe di Pinochet del ’73. Non si limita a far imprigionare tutti quelli di sesso maschile, ma esegue lui stesso gli omicidi, previa tortura, delle studentesse di sesso femminile. Nel suo malato connubio di amore e morte prima le seduce, poi le martoria, e infine le ammazza, scattandone alcune fotografie documentali. Finito il suo ruolo attivo di spia e assassino nel Golpe, torna a prendere il suo nome e a esercitare la sua vera professione: pilota di aereo. Ma grottescamente la abbina alla sua vena poetica, componendo delle (impossibili) parole con le scie di fumo dei reattori, parole sopra il cielo di Santiago, sopra gli stadi dove i prigionieri politici sono ammassati. Parole “poetiche” e deliranti sulla morte: «La morte è il Cile», «La morte è responsabilità», «La morte è pulizia».
È su questo che l’esperienza di vita dell’autore si incrocia nella trama: Roberto Bolaño, vissuto fino alla fanciullezza in Cile, si era trasferito con la famiglia in Messico dove aveva vissuto per una decina d’anni, tornando in patria solo poco dopo il Golpe. Incarcerato insieme a migliaia di altri e detenuto nello stadio-prigione, si era riuscito a salvare solo perché tra i carcerieri aveva incontrato un suo vecchio compagno di scuola, che gli aveva consentito di fuggire.
Di questo vissuto entra nel romanzo il senso del potere usato a fin di Male, lo smarrimento della dimensione umana quando dalle leve del Potere viene bandita ogni morale, ogni senso comune di giustizia o carità, e al suo posto viene esercitata un’ottusa maschia crudeltà, persino stupida, inconsapevole, dimentica e superficiale. Il nazista Carlos Wieder ne incarna gli aspetti più alti e persino seducenti nella sua violenza quasi fredda, senz’anima, passione. Il suo delirio gli fornisce un alibi morale talmente solido che non avrà mai una redenzione, come è giusto che sia, e il finale ce lo restituisce come lo ha dipinto: un uomo in fondo mediocre, che credeva di essere un eroe, una piccola gestalt di un ingranaggio che funziona solo quando la politica si seppellisce per essere sostituita da un trionfalismo nazionalistico consolatorio per le masse, e garantista per i pochi detentori di ricchezze e potere. E questo ci ricorda qualcosa, o almeno dovrebbe ammonircelo.
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