La storia dell’acqua privata

Creato il 06 maggio 2011 da Albertocapece

Prepaid Water Meter System quello a cui probabilmente arriveremo

Ognuno di noi ha delle frasi che lo fanno imbestialire, nel privato come nello spazio politico e civile. Una delle mie frasi nere, una di quelle che mi fanno rimpiangere di non potermi trasformare nel terribile Hulk, è ” tanto sono tutti uguali”. Contiene l’essenza della destra e del servilismo, l’assoluzione per le proprie scelte sbagliate così come l’alibi per i proprio peccati e soprattutto ha dentro di sé un concetto di politica come funzionale ai propri immediati interessi, senza la parte di idee, speranze e progetti che ne sono l’essenza.

Certo negli ultimi trent’anni il ceto politico ha fatto di tutto per accreditarla e per darle la sostanza di un’ambigua verità. Tuttavia le differenze le ho sempre viste viste chiaramente, nonostante il crossdressing ideologico da cui siamo stati investiti.

Devo confessare però che negli ultimi mesi proprio gli atteggiamenti di gran parte dell’opposizione sulla battaglia per l’acqua pubblica, mi hanno reso meno furente di fronte all’asserzione di quell’atona e spuria equazione per la quale tutte le vacche sono nere. A forza di sentire dire dentro al Pd, ma anche altrove, che la privatizzazione  è solo un fatto di gestione e che l’acqua rimane comunque un bene pubblico mi sono domandato se ci credessero o ci facessero. Oppure se non riuscissero proprio a vedere la differenza, come se tutto si esaurisse in un computo di convenienze, di interessi o di razionalizzazione. Insomma come se le differenze col centro destra fossero state appiattite e limate.

E’ assolutamente ovvio che se la fruizione e la distribuzione dell’acqua vengono affidate a soggetti che hanno come principale il profitto non può essere garantito il diritto di accesso all’acqua che deriva dal fatto che essa è un ” common good” un bene pubblico ed essenziale per la vita. Essa diventa una merce e chi non può pagare non avrà acqua. A meno che con bene pubblico non si voglia intendere che si può sempre attingere direttamente l’acqua da un fiume inquinato.

Infatti è quanto avviene in quasi tutti i Paesi dell’Africa, dell’Asia e del Sudamerica dove la logica privatistica si è affermata. In molti di questi Paesi addirittura l’acqua è distribuita tramite della carte di credito prepagate da inserire nell’impianto idraulico per poter veder scendere qualcosa dal rubinetto. Il che naturalmente ha causato rivolte ed epidemie. Hanno tentato di farlo anche in Inghilterra dove però  la popolazione si è opposta con tutti i mezzi a questa estrema mercificazione e hanno dovuto fare marcia indietro. Esattamente ciò che si tenta di impedire che avvenga in Italia con il referendum, non parlandone e fingendo che non ci sia.

Quindi se si è d’accordo con questa prospettiva inutile venirci a dire che tanto l’acqua rimane pubblica: perché o è uno squallido inganno oppure è proprio un deficit di comprensione. E francamente di questi due tipi di politici non abbiamo bisogno. E anche del terzo tipo, di quelli che dicono, ma lo fanno in tante parti perché non da noi?

Anzi questa tesi mi spinge a fare una po’ di storia della privatizzazione dell’acqua, che è nata dentro un ingenuo equivoco nel quale si sono poi inseriti gli interessi economici.

Già nel 1968 il Consiglio d’ Europa aveva elaborato una Carta dell’Acqua nella quale si affermava il suo valore di bene comune e senza frontiere. Però proprio in virtù di questa sua natura generale ed essenziale si sottolineava anche il dovere di ciascuno di non sprecarla. Si trattava di una precauzione, di un dovere in sé giusto, anzi giustissimo, ma che nascondeva un tarlo di cui probabilmente pochi si accorserso.

Ma era un tarlo che lavorava incessantemente sotto la superficie e che produsse il suo danno principale quasi dieci anni più tardi, nel 1977 alla conferenza internazionale di Mar del Plata, in Argentina. E’ proprio qui che si creò la contraddizione nella quale viviamo tuttora. Infatti in ragione della imponente crescita demografica di molte regioni del globo, della scarsità delle risorse idriche e sotto l’influsso di teorie psicosociali di tipo liberista, come ad esempio l’insita tendenza degli individuo allo spreco, si ritenne necessario stabilire che l’acqua dovesse avere un valore economico in maniera da rendere coscienti i consumatori del valore della risorsa e razionalizzare dunque il suo utilizzo.

Possiamo fin da ora dire che si trattava di una soluzione ambigua se non ipocrita per il semplice fatto che i consumi individuali di acqua, quelli che dovevano essere compressi attraverso una mercificazione del bene, erano allora come oggi soltanto il 5% del consumo totale, mentre il 25% circa viene utilizzato dall’industria e il 70% dall’agricoltura. Insomma si era puntato il dito verso il soggetto sbagliato, quello più indifeso e al tempo stesso più sfruttabile dal punto di vista dei profitti.

Da quel 1977 insomma l’acqua continua ad essere un bene essenziale e vitale, un bene comune, ma è al tempo stesso una merce. Da qui, il precipitare, di conferenza in conferenza, verso l’ufficializzazione dell’acqua come bene economico, sancito ufficialmente a Dublino nel 1992, mentre nel 2000, otto più tardi si specificò che questa merce doveva avere il suo valore calcolato in base al costo di produzione e alla necessità di remunerare il capitale investito.

E’ una storia che sembra seguire quasi in parallelo quello del liberismo selvaggio. E così alle grandi dichiarazioni principio, seguirono i fatti e i ricatti del multinazionali. Nello stesso 2000 il Fondo monetario internazionale ha condizionato la concessione dei suoi prestiti a 12 paesi (quasi tutti africani, poveri e indebitati) alla privatizzazione delle loro risorse idriche. E così ha fatto pure la banca mondiale in Ghana. E siccome il destino è beffardo è capitato che a Buenos Aires, teatro del primo cedimento alla mercificazione dopo il passaggio della gestione idrica alla Française des Eaux, 3 milioni e mezzo di cittadini sono stati esclusi dall’acquedotto.

Qualcuno obbietterà che anche le società pubbliche tendono al guadagno  ed è vero, ma la differenza è che l’entità di questo guadagno è stabilito dal pubblico e che i soldi entrano in un giro pubblico o così almeno dovrebbe essere: in questo modo il principio del common good viene preservato. Con i privati entrano invece in tasche individuali e vanno solo ad aumentare le differenze sociali. Senza dire che i soldi pagati qui possono essere utilizzati per investimenti o acquisizione di beni dall’altra parte del mondo.

Ed è per questo che fin dal 1998 esiste un Comitato Internazionale che cerca di promuovere in tutto il mondo il diritto d’accesso all’acqua e anche un Contratto mondiale dell’acqua.

Ora tocca a noi dire la nostra e sottrarci al consiglio della Banca mondiale che predilige i Prepaid Water Meter, ossia gli erogatori acqua con carta prepagata, il che fa dell’acqua un “liquido” finanziario. Con grandissimi guadagni, ma con nessuna risoluzione dei problemi perché la lotta agli sprechi che si voleva ottenere con la mercificazione è stato un completo fallimento Oggi 1,4 miliardi di persone nel mondo non hanno accesso all’acqua potabile e saliranno a più di 3 miliardi nel 2020.


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