“Ha preso fuoco la catramina e il polistirolo che rivestono le cisterne del gas. Poi il fumo ha invaso anche il doppiofondo, dove si trovavano i miei compagni di lavoro. Lí si lavora stando distesi, si esce strisciando, infilandosi nei boccaporti. Quelli che erano sopra sono riusciti a scappare. Per gli altri invece... Hanno sicuramente provato a uscire, ma c’era troppo fumo, e poi era andata via la luce, non si vedeva più́ nulla. Non avevamo i respiratori. Ci sono le manichette dell’aria, ma evidentemente non sono servite”. E’ un passaggio del davvero emozionante libro di Angelo Ferracuti “Il costo della vita” (Einaudi). Non è un’arida indagine su una tragedia avvenuta nel porto di Ravenna il 13 marzo del 1987 con la morte di tredici operai, ma un vero e proprio romanzo-verità. L’autore è Angelo Ferracuti, appena reduce dall’assegnazione del Premio “Lo Straniero” 2013, il riconoscimento attribuito dalla rivista omonima diretta da Goffredo Fofi. Angelo ha compiuto un lavoro certosino, andando sul “luogo del delitto” per mesi e mesi, ricostruendo una per una le vite delle tredici vittime. Come fosse un novello Edgar Lee Masters intento a ridare voce ai personaggi di quella terribile nave, la Elisabetta Montanari di proprietà della Mecnavi, e a costruire così una moderna Spoon River. Corredata dalle immagini di un famoso fotogiornalista: Mario Dondero. Sembrano cosi rivivere i tre giovanissimi al primo giorno di lavoro, l’ex tossicodipendente, il cassaintegrato, un uomo a un passo dalla pensione, “un egiziano del Cairo venuto a cercare fortuna in Italia” e tutti gli altri. Vicende intrecciate sotto quel titolo “Il costo della vita” che riecheggia un altro titolo su cui si dilungano commentatori di ogni colore: “Il costo del lavoro”. Un capovolgimento che indica anche un’alternativa possibile.
Chi è stato l’assassino? L’autore indaga e descrive con linguaggio levigato e coinvolgente. Fa parlare i superstiti, i magistrati, i sindacalisti, i poliziotti, gli avvocati, i carabinieri, padroni e padroncini, i giornalisti accorsi al porto quella mattina. Non scaturisce dalle oltre 220 pagine il nome di un colpevole ma di tanti colpevoli, fino a dar vita a un’ossatura, a un sistema che “uccide”. Vien voglia, certo, di ripescare antiche parole “dimenticate”, come la “legge inesorabile del profitto”. Eppure vien anche da pensare che potrebbe esistere un modo per produrre, per lavorare, salvaguardando in primo luogo “il costo delle vite”. E magari, in tal modo, gestire parametri di maggiore efficienza e di maggiore redditività. Senza attendere un ipotetico crollo del capitalismo e una futuribile società di “liberi ed eguali”.
Per far questo sarebbe necessario spezzare le catene che circondavano quella nave e tanti altri luoghi di lavoro e che ancora oggi producono vittime. Come l’assenza di misure di sicurezza adeguate, come la presenza di una “tratta delle braccia” gestita da “caporali” intenti a rappresentare una realtà di solito immaginata solo nelle terre del mezzogiorno. Quel tredici marzo “stavano lavorando contemporaneamente operai di cinque ditte appaltatrici diverse, l’una all’insaputa dell’altra, quasi tutti in nero”. Quel modo di lavorare, hanno scritto i periti nominati dal giudice istruttore: “Se da un lato consentiva certamente di ridurre i tempi e i costi di esecuzione dei lavori, dall’altro rendeva altamente probabile e prevedibile il verificarsi dell’evento catastrofico”. Un dirigente Cgil, Giacinto De Renzi, racconta come “La politica delle aziende che davano commesse di lavoro puntava esclusivamente ad avere i minor costi possibili, i tempi di consegna piú rapidi e la massima flessibilità. Tanto che molti di quei ragazzi che morirono nelle stive della Elisabetta Montanari lavoravano in nero. Non erano denunciati all’ufficio di collocamento, o all’Inail”.
Che cosa è cambiato dopo la tragedia, dopo un processo che ha lasciato l’amaro in bocca e non solo ai familiari dei defunti e al sindacato? Aveva titolato questo giornale, l’Unità, il 24 luglio 1990: “Assolto il sistema. E scoppia l’amarezza”. Mentre Il Resto del Carlino diceva: “Questa non è una condanna”. Erano state distribuite lievi pene, via via ridotte dagli altri gradi di giudizio, fino alla Cassazione. E oggi che cosa è cambiato in quel porto di Ravenna? Luigi Folegatti, nel 1987 segretario generale della Camera del Lavoro, descrive nel libro una frantumazione del rapporto di lavoro, con un ricambio. Mentre ieri la maggioranza degli operai veniva dal sud oggi sono quasi tutti immigrati. “Le ditte appaltatrici sono pure di piú. Molte aziende artigiane prendono le commesse che poi fanno all’incirca centocinquanta lavoratori, in larga parte rumeni o comunque stranieri, che percepiscono la paga globale, un salario comprensivo di tutto, tredicesima, tfr, ma che dà la possibilità al datore di lavoro di chiedere straordinario senza limite e senza nessun aumento di stipendio”. Racconta Ferracuti: “Alle sei e mezzo della mattina il caporale si fa vivo per raccogliere la maestranza. Sono rumeni, macedoni, senegalesi, albanesi. Di tutti i paesi, di tutte le età. Con la crisi e i licenziamenti sono arrivati i primi italiani, prevalentemente meridionali. Chiunque giunga in città in cerca di un lavoro per sfamare la propria famiglia va a finire in un “punto nero”. Davanti alla stazione di Ravenna, sul lato opposto alla rotonda, c’è uno dei “punti neri”, un bar…”. E ricominciano quello che chiamano, senza pudore, i “morti sul lavoro”. E così un giornale locale, il “Corriere di Romagna”, a proposito di un ennesimo morto sul lavoro titola: “Al porto si muore ancora. Non in nero, ma in affitto” , mentre il sottotitolo recita: “Come la legge Biagi ha legalizzato il caporalato”.
Una realtà che riecheggia le parole più severe espresse non da un esponente della sinistra politica ma dal Cardinal Ersilio Tonini: “Ed è a Ravenna, dalla stiva di quella nave che si leva la denuncia: il vostro vescovo non fa nomi, la sua denuncia va oltre le persone, è ben più́ ampia. L’umanità sta distruggendo senza saperlo i suoi tesori più́ pregiati: il rispetto umano, la pietà, la solidarietà, in una parola la capacità di amare.
Chi poi nel mondo del lavoro più́ risente di questo processo sono proprio i giovani. Non per niente il maggior numero delle vittime di Ravenna sono dei ragazzi, appositamente scelti fra i piú affamati di lavoro a ogni costo…”.
C’è un episodio raccontato da un compagno di lavoro al figlio di Vincenzo Padua, una delle vittime. Lui, il superstipe, aveva visto il fuoco e aveva gridato: “Vincenzo, andiamo!” Si erano incamminati sulle scalette, su su, fino in cima, mentre i ragazzi sotto gridavano: Aiuto! Aiuto! Allora Vincenzo, l’anziano vicino alla pensione, era tornato indietro, convinto di poter aiutare. Uno slancio di solidarietà che lo portava a condividere la sorte dei giovani precari asfissiati.