La rilettura porta a galla cose che nessuno può immaginare.
Questo perché probabilmente lo sguardo si affina a furia di leggere (i lavori degli altri Autori, quelli con la “A” maiuscola, certo), cresce l’attenzione per ogni singola frase. Si sviluppa la cura addirittura per il suono delle parole. Di ogni parola.
Passa solo una settimana, e d’un tratto emergono le stonature; anche i refusi certo.
Quando la passione prende, è come precipitare in un pozzo, ma non esiste paura: perché quel pozzo conduce ad apprezzare sempre più la parola.
In questi giorni sto leggendo l’impegnativo Thor Vilhjálmsson, e il suo “La corona d’alloro”. E riflettevo sul traduttore (traduttrice in questo caso). Deve possedere una passione mostruosa per la scrittura, se studia una lingua tanto impervia come l’islandese, e deve poi misurarsi con una prosa tanto particolare.
Però è di grande aiuto un libro del genere, perché “spiega” quanto la parola possa essere forte. Come una frase sola possa comunicare orrore: reale, che gela il sangue. Una frase sola; quando noi siamo abituati a blaterare, o a scrivere interminabili e superflue frasi per dire… nulla.
Sì sì, è facile scrivere, certo. È di una semplicità sconcertante: quanto ci vuole? Mica è come lavorare.
Di solito chi la pensa così tutto fa, tranne che lavorare (eppure prende lo stipendio). Ma al diavolo, non è di questo che volevo scrivere.
Prima o poi viene il momento in cui ci si deve congedare da un testo perché prenda la sua strada. O almeno, che tenti di trovarla (e non è detto che succeda, e se accade non vuol dire che approderà dove desideravamo).
Prima di questo momento, scatta una sorta di repulsione verso il testo. Lo hai letto così tante volte che la sola idea di dover passare ancora del tempo in sua compagnia, ti mette di cattivo umore. Eppure hai un dovere: nei confronti del lettore. Anche se in tutto saranno 8, vorresti che si trovassero in mano qualcosa di curato; no, non di perfetto.
La perfezione non esiste.
Credo che dietro ogni storia scritta, se ne debba intravedere un’altra. Quella che racconta dell’attenzione per il lettore, e non importa quanti saranno: 10 milioni, o dieci. Lo scrittore si distingue da chi pesta le dita su una tastiera per il suo desiderio di confezionare qualcosa che sappia trasmettere cura per i dettagli. Attenzione. Impegno. E queste qualità vuole che siano palpabili a ogni pagina. Non sempre questo riesce: in fondo l’errore scappa, e l’editor (se c’è), esiste anche per riparare alla stanchezza che naturalmente colpisce chi scrive.
Quello che spinge poi a resistere, per anni, strappando le ore al sonno per scrivere, è questo. Non solo le storie che si hanno in testa, e si vuole mettere su carta. Bensì la consapevolezza che la propria adamantina determinazione a spulciare parola per parola, non può essere solo frutto di stupidità, o un miraggio. Se si è così, allora, forse, c’è del talento da qualche parte. Basta non avere fretta.
Non avere fretta.