Su Cormac McCarthy l’uomo non c’è molto da dire, Pur trattandosi di uno dei maggiori interpreti della letteratura contemporanea americana (definito uno dei magnifici quattro, a fianco di Thomas Pynchon, Don De Lillo e Philip Roth), il nostro Cormac conduce una vita assai appartata, lontana dai salotti letterari e dalla realtà mondana dell’editoria a stelle e strisce.
Questa privacy così ben difesa, questo disinteresse per le luci della ribalta, specialmente in un contesto come quello americano, costa caro. Pochi, a parer mio, meriterebbero come McCarthy il Nobel per la letteratura. Philip Roth, forse, personaggio altrettanto scomodo e sopra le righe. I romanzi di McCarthy sono asciutti, potenti e diretti come un pugno in faccia. Con la sua prosa essenziale, con l’utilizzo particolare della punteggiatura e i suoi dialoghi fusi nel tappeto narrativo, riesce a indurre un senso di straniamento e desolazione, un vuoto carico di significati. Affezionato alle ambientazioni western, riesce a sottolineare con le parole il silenzio del deserto.
Nonostante una produzione letteraria di tutto rispetto, McCarthy viene conosciuto dalle masse grazie alle trasposizioni cinematografiche dei suoi romanzi. È il caso di “Non è un paese per vecchi”, romanzo uscito nel 2005, che ha folgorato i fratelli Coen. Detto, fatto: ne esce un film candidato a un po’ di Oscar, decisamente violento e soprattutto gravido di un messaggio: la vita fa schifo e schiaccia tutti, senza alcuna differenza. Tuttavia, in mezzo alla desolazione morale, c’è una scintilla, un minuscolo fuoco che non si spegne mai.
Un anno dopo, nel 2006, McCarthy esce con un nuovo libro, intitolato “La Strada”. Esce dal canone western per tuffarsi in un’ambientazione post-apocalittica, fredda e coperta di cenere. Una storia essenziale: un padre e un figlio che tentano in tutti i modi di sopravvivere in mezzo a un mondo spento, privato di quasi ogni scintilla vitale. Non più alberi né animali: le uniche bestie rimaste sono gli esseri umani, intente a divorarsi (talvolta letteralmente) in un carosello di atrocità.
L’arco narrativo è ridotto all’osso e tutto gira attorno a una manciata di eventi, connessi alla ricerca di cibo e riparo dal gelo. Non è però possibile ridurre “La Strada” solo a questo: alla storia fatta di eventi si sovrappone la forza della creazione. Il padre difende l’innocenza del figlio al pari di un fuoco sacro. E proprio il tema del fuoco, della scintilla umana, la pietà che il bambino dimostra pur non avendo conosciuto altro che la desolazione e il degrado, ci narrano una storia ben più antica, dai risvolti prometeici.
Tutto questo è cesellato dall’attenta scrittura di McCarthy, dai dialoghi essenziali, privi di punteggiatura. La sintassi stessa, composta da semplici frasi dichiarative e frequenti ripetizioni dei sintagmi concorre a dipingere la catastrofe di un mondo senza più colori. Eppure in tutto questo, la scintilla dell’umanità (“Perché noi siamo i buoni e portiamo il fuoco) , vero tema fondante del romanzo, viene portata avanti di pagina in pagina fino allo struggente finale.
Alberto Della Rossa
La Strada ha vinto il premio Pulitzer per la letteratura nel 2007. È un romanzo che colpisce allo stomaco e capace di tenere il lettore in uno stato di ansia solo in virtù del non detto. Il mondo descritto è angosciante: si arriva a desiderare la vista di un uccellino, di un animale, fosse anche un insetto. Si arriva a odiare il grigio, ad anelare il rassicurante chiarore della fiamma di una candela, a partecipare con i protagonisti alla lotta per la sopravvivenza. E, perché no, a diventare noi stessi portatori del fuoco.