La straordinaria invenzione di Hugo Cabret di Brian Selznick (parente del David O. Selznick, produttore di King Kong, Via col vento, Rebecca, la prima moglie e di una sconfinata lista di pellicole dei tempi d’oro di Hollywood) è un “romanzo per parole e immagini”. Un libro così insolito da necessitare una definizione ad hoc.
Il romanzo si apre con una serie di tavole a matita, un bianco e nero elegante, pastoso ed evocativo. Poi compaiono delle pagine scritte e poi di nuovo i disegni, sempre a pagina piena, intervallati con la narrazione scritta. Ed il discorso inizia a complicarsi: le immagini infatti, non descrivono quanto espresso dalle parole, ma arricchiscono la parola scritta, integrandola e completandola. Ed ecco la chiave (a cuore) della straordinaria invenzione di Selznick: il continuo intreccio tra parole e immagini muta costantemente natura perché ci sono cose che le parole, descrivendo, impoveriscono ed altre che le immagini non riescono a spiegare. Selznick maneggia questo gioco di specchi in maniera esemplare.
Per attivarlo serve una chiave, una chiave a forma di cuore, e la metafora non potrebbe essere più scoperta e più efficace. Ma perché il cinema? Perché Hugo, suo padre e Isabelle amano tutti il cinema e soprattutto perché il vecchio scorbutico non è altri che George Méliès, il capostipite del cinema di fantasia, l’inventore degli effetti speciali, il primo a riconoscere le potenzialità del cinema come fabbrica dei sogni.
“Se ti sei mai chiesto da dove arrivano i tuoi sogni quando vai a dormire la sera, guardati attorno. È qui che vengono creati.” Dice un giovane Méliès ad un bambino, futuro storico del cinema. Le parole del regista potrebbero valere per il romanzo.
Ma il premio migliore è quello che gli consegna il pubblico perché non si può rimanere indifferenti a questa pellicola. E’ una meraviglia per gli occhi, a partire dalla sequenza iniziale, con il lungo travelling in avanti che dalla panoramica di Parigi, vista dall’alto, scende e cammina fino alle viscere della stazione di Montparnasse e all’orologio dietro cui si nasconde Hugo. Un 3D movimentato e ricco, grazie alle scenografie come sempre impeccabili e dettagliate del duo Ferretti – Lo Schiavo: al terzo Oscar, dedicato all’Italia, il paese dove paradossalmente le loro abilità vengono meno sfruttate. Questo film, fatto da un cinefilo raffinato come Scorsese, a partire da un libro cinefilo per definizione, ha un cuore pulsante simile a quello delle tante macchine che appaiono sullo schermo (orologi, treni, persino il supporto per la gamba del cattivo di turno). È ricco di riferimenti alla storia del cinema, da quelli più scoperti ai fratelli Lumière e, ovviamente, a Méliès, ai rimandi destinati agli spettatori più accorti: impossibile, con tutti quegli ingranaggi in movimento ed il quadrante dell’orologio che ricorre ossessivamente, non pensare alla sequenza iniziale di Metropolis di Fritz Lang.