La struttura matematico-finanziaria che illuse di poter controllare i rischi

Creato il 25 gennaio 2012 da Lafinanzasulweb @LaFinanzasulWeb

di Simone Galimberti - Ingegnere ed Analista Finanziario Indipendente, Docente a contratto in Masters post-universitari, nonché Consulente Tecnico e Perito di  Tribunale

Nel precedente articolo di questa mini-serie sui derivati, abbiamo già fornito una definizione generale di strumento derivato. Qui di seguito si forniranno al lettore alcuni spunti utili per meglio comprendere la natura e la struttura di tali strumenti.

Considerando che in finanza ogni contratto o titolo il cui prezzo sia basato sul valore di mercato di altri beni (gli underlying assets ovvero i titoli sottostanti, quali azioni o indici azionari, valute, tassi di interesse, commodities, etc.) è considerato uno strumento derivato, da questo si può già intuire come innumerevoli siano le tipologie dei derivati, fino a comprendere, ad es., strumenti che prezzano il rischio sui raccolti in conseguenza della quantità di precipitazioni di pioggia in una determinata zona del mondo (weather derivatives).

I derivati sono oggetto di contrattazione1 in molti mercati regolamentati, ma soprattutto  in quelli OTC (Over The Counter), cioè mercati alternativi alle borse vere e proprie, non regolamentati e creati da istituzioni finanziarie in contropartita diretta con la clientela, istituzionale o non.

Il boom che si è avuto nella diffusione2 di tali strumenti derivati è avvenuto solo nell’ultima decade, grazie alla crescente globalizzazione dei mercati e alla contestuale introduzione di computers sempre più potenti e veloci e meno costosi, che ha facilitato enormemente l’ingegnerizzazione di tali prodotti finanziari e la loro accessibilità anche ad operatori non qualificati.

Peraltro, la dimensione di tale diffusione desta ad oggi non poche preoccupazioni, considerando che, come ben si evidenzia in figura, il nozionale di tutti i derivati contrattati nel 2010 è più di 10 volte l’intero P.I.L. mondiale, cosicché l’economia reale si trova adesso “in balia” dei mercati finanziari e dei suoi mutevoli umori.

Per fare un esempio, basti considerare tutte le attuali turbolenze nell’area Euro in merito a selettivi movimenti speculativi, tramite strumenti derivati quali i Credit Default Swaps, che hanno determinato l’accelerarsi di una crisi sistemica in nazioni quale Islanda e Grecia o che hanno avuto pesanti ripercussioni, anche politiche, sul sistema finanziario di Italia e Spagna.

Le finalità

degli strumenti derivati

I prodotti derivati vengono utilizzati, principalmente, per tre finalità:

  • finalità di copertura, detta anche hedging, cioè per ridurre il rischio finanziario di un portafoglio preesistente di strumenti finanziari (azioni, obbligazioni, mutui, etc.);
  • finalità speculativa, assumendo esposizioni al rischio al fine di conseguire un profitto veloce ed in tempi rapidi con l’obiettivo di lucrare sui continui e rapidi cambiamenti di prezzo dei prodotti derivati;
  • finalità di arbitraggio, per conseguire, cioè, un profitto privo di rischio attraverso transazioni combinate sul derivato e sul sottostante tali da sfruttare gli eventuali disallineamenti del mercato nella valorizzazione dei due diversi strumenti finanziari.

Se allora, come si capisce da quanto sopra esposto, il prezzo di un derivato è la sua variabile più importante, come si può stimarne il valore?

Stima del valore di uno

strumento derivato

Per definizione, il prezzo di un derivato varia in relazione dell’andamento del sottostante, secondo una modalità, propria di ciascun derivato, rappresentata da una funzione matematica, quasi sempre molto complessa. Il valore dei prodotti derivati è, quindi, connesso al valore del sottostante, ma anche al pay-off, definito come il Profit/Loss (i.e. quanto fa guadagnare o perdere al sottoscrittore del derivato stesso) al variare delle molteplici variabili indipendenti.  

La stima del valore dei prodotti derivati in un determinato momento, anche detto Mark to Market (MtM), richiede perciò la capacità di simulare i possibili scenari futuri del sottostante al fine di determinare, per ciascuno scenario, il conseguente valore del pay-off. La  media dei valori assunti dal pay-off ponderati per le probabilità di accadimento di ciascuno scenario, scontata del valore finanziario del tempo (e cioè riportata al momento della valutazione), costituirà proprio il valore cercato, cioè il prezzo del derivato.

Anche solo da ciò si capisce quale ruolo preponderante e pesante assuma la matematica finanziaria complessa nella costruzione, valorizzazione e comprensione di tali strumenti finanziari!  

Esistono molti metodi di pricing, più o meno sofisticati, a seconda di come si considerino distribuiti i prezzi del bene sottostante, ma non vogliamo qui entrare in inutili tecnicismi. Qui basta considerare, a mo’ d’esempio, la prima formula di calcolo del prezzo dei derivati, in funzione della quale venne attribuito il premio Nobel per l’economia a Black, Merton e Scholes nel 1997.

Si tratta, come si può ben vedere, di un’equazione alle derivate parziali parabolica, che può far già intuire quale complessità matematico-finanziaria sottenda l’ingegnerizzazione dei derivati. Per inciso, tale relazione deve essere soddisfatta -in assenza di opportunità d’arbitraggio- dal prezzo di un qualsiasi strumento derivato.

Qui è d’uopo una breve parentesi di natura storica, che, peraltro, ci aiuterà a comprendere meglio lo scopo del presente articolo: il primo esempio di (quasi) collasso sistemico dovuto all’uso “disinvolto” di strumenti derivati, il caso del fondo speculativo Long Term Capital Management (LTCM).

 Tale fondo, istituito nel 1994 da ex alti dirigenti della Salomon Brothers americana, si basava proprio sui modelli matematici creati dai premi Nobel Merton e Scholes per eseguire operazioni di arbitraggio economico.

Illustri economisti e scienziati dell’epoca, oltre ai citati Merton e Scholes, collaborarono in tale fondo, che possedeva un capitale gestito di 4 miliardi di dollari, ma che, peraltro, tramite leve finanziarie spericolate operava con esposizioni in alcuni casi sino a 1200 miliardi di dollari.

Nei primi anni della sua vita il fondo riuscì a produrre rendimenti netti annui di circa il 40%, finché, con la crisi della Russia e al grande utilizzo della leva finanziaria da parte di LTCM, si giunse al suo drammatico default, che richiese, nel 1998, l’intervento diretto della FED, la Banca Centrale statunitense a sostegno dell’intero sistema finanziario, perché il collasso del fondo avrebbe determinato una reazione a catena difficilmente arrestabile.

Ora, dunque, come direbbe un noto anchorman televisivo: “la domanda sorge spontanea”. Se eminenti scienziati ed altissimi managers bancari hanno fallito in una tale drammatica maniera, arrivando a rischiare di compromettere le basi stesse dell’economia reale di uno stato avanzatissimo (e non solo quella volta lì: si pensi ai casi Enron, Baring Bank, Orange County, Bear Sterns Bank, solo per citarne alcuni!), vi pare ancora giustificato l’uso disinvolto e spesso inconsapevole che degli strumenti derivati ancora si fa, a tutti i livelli?

Varie tipologie

di strumenti derivati

Posto che nascono nuovi derivati ogni giorno, con diversi profili finanziari e diversi gradi di sofisticazione, con limiti dati dalla sola fantasia (più spesso dai peggior incubi…!) degli ingegneri finanziari, si può procedere ad una sommaria suddivisione di tali strumenti finanziari in contratti standard, detti anche plain vanilla, e contratti esotici, molto più complessi.

Le tipologie più note e diffuse sono quelle elencate qui sotto, laddove l’ultima categoria è costituita dalla combinazione, in un unico prodotto, di uno o più prodotti finanziari con uno o più prodotti derivati, in maniera tale da modificare strutturalmente l’originario profilo di rischio/rendimento dei singoli prodotti (vd. le obbligazioni strutturate):

Stante la vastità e la complessità della materia, non sarà qui possibile trattare, neanche brevemente, tutte le precedenti tipologie di cui sopra, per la qual cosa ci limiteremo a tratteggiare brevemente alcune caratteristiche fondamentali delle Opzioni, gli strumenti derivati per eccellenza, rimandando al prossimo articolo una descrizione più approfondita degli Swaps, che costituiscono una larghissima fetta di tutti i derivati contrattati sui mercati mondiali.

Le caratteristiche

delle opzioni

Le opzioni, come dice il nome stesso, conferiscono la facoltà -ma non l’obbligo!- di comprare (call) o vendere (put) un certo titolo (sottostante) a una determinata data futura a un determinato prezzo. detto strike price. L’opzione comporta il pagamento di un premio, proprio perché conferisce un diritto al compratore, come una polizza assicurativa conferisce al titolare una data prestazione al verificarsi dell’evento assicurato. In questo senso, accenniamo solo al fatto che i contratti futures differiscono dalle opzioni proprio perché, al contrario di queste, prevedono l’obbligo di acquisto.

Le opzioni, inoltre, si suddividono in altre sottocategorie, potendo essere di tipo europeo, americano o Bermuda, a seconda che possono essere esercitate solo alla scadenza (le prime), in qualunque momento fino alla scadenza (le seconde) o solo in determinate date (le ultime).

Sono anche presenti delle opzioni simpaticamente battezzate asiatiche, in quanto la leggenda vuole che siano state progettate da ingegneri finanziari statunitensi durante un viaggio nella terra del Sol Levante, il cui valore dipende non già dal valore attuale, bensì dall’andamento storico del prezzo del sottostante.

Moltissime strategie operative -di copertura, arbitraggio o pura speculazione- possono essere costruite partendo da opzioni call e put e combinandole nelle più svariate forme (strangle, straddle e butterfly, solo per citarne alcune), ma per motivi di spazio non potremo occuparcene qui di seguito, seppure stiano alla base degli Swaps, di cui ci occuperemo nel prossimo articolo.


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