Scusate. Mi ero proposto in cuor mio di non parlare più di calcio e di mondiali in questa rubrica, anche per il disgusto di ripetere cose che ormai annoiano anche me. Ma quando sento certe enormità cosa dovrei fare se non denunciarle da bravo ed onesto cittadino che ha cuore la reputazione della patria? Come qualificare per esempio questa uscita del Trap, il quale, intervistato dal Fatto Quotidiano, alla domanda sul «perché siamo tornati a casa subito», ha avuto il coraggio di rispondere così: «Vale per noi ma anche per colossi come Spagna, Inghilterra, la stessa Russia: perché eravamo spompati. Attenzione signori: qualificarsi a un Europeo o a un Mondiale è un conto, ci metti due anni, pianino pianino, ma affrontare la fase che conta con 8 undicesimi, o 15 ventitreesimi della rosa che hanno 70 partite sul gobbone non è semplice. Alla fine corrono più gli africani, i centroamericani. Che forse durante la stagione non si spremono come ci spremiamo noi.» Faccio notare che noi italiani ci consideriamo – basta assistere al chiacchiericcio dei salotti televisivi per rendersene conto – dei maestri di tattica, una sapienza che nessuno mette in discussione e che sarebbe il vero valore aggiunto del calcio italiano e dei nostri allenatori. Notate poi che però, nonostante la nostra inarrivabile sapienza, quando si arriva al dunque, e specie quando le cose vanno male, sentiamo fortissimo il richiamo della foresta (perché in realtà non abbiamo convinzioni solide) e tutta questa sapienza si riduce fondamentalmente a due o tre considerazioni di fondo: la qualità (e la scelta) dei giocatori, la mitica condizione fisica, o le motivazioni. Si perde perché non si hanno i campioni o perché si è stanchi. Oppure perché non si butta la gruccia contro il nemico come Enrico Toti, come ha fatto intendere qualche giorno fa Dino Zoff, che sulla sconfitta azzurra con l’Uruguay ha scritto sul Sole 24 Ore, pure lui con indomito coraggio: «In fondo abbiamo mantenuto noi le redini del gioco. Però non abbiamo tirato in porta. Non siamo stati feroci. Ecco, semmai, il problema è stato il possesso palla non conforme al nostro calcio che è vincente quando è basato sull’inventiva, sulla capacità di ‘improvvisare’, di difendere e lanciarsi in contropiede. (…) Il sacrificio e la fantasia: sono queste le doti principali che ci sono mancate». Ma come si possono conciliare questi discorsi da bar, vi chiederete, con le dottissime discussioni sui moduli, modulini e moduletti dei sopramenzionati chiacchiericci televisivi, o con l’insistenza sull’importanza dei gosplan per i risultati della nazionale? Benissimo, benissimo si conciliano! Sono le due facce della stessa medaglia: la medesima strunzata, versione verace e versione dottorale.
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